Il Daily Mail e The Guardian affermano: "L'acidità di questo vino mette a rischio i denti".
Ci risiamo. Gli inglesi, o meglio una certa stampa britannica, fa un'altra delle sue gaffe colossali. Dopo aver additato, qualche mese fa Napoli come una delle 10 città occidentali più pericolose, notizia poi doverosamente smentita, oggi se la prende con il Prosecco.
La bagarre è scoppiata dopo la pubblicazione sul Daily Mail e The Guardian di alcune dichiarazioni piuttosto discutibili da parte di alcuni "esperti" secondo cui uno dei nostri vini più pregiati, il Prosecco, farebbe male ai denti a causa della sua elevata acidità.
A lanciare quella che appare come una delle periodiche crociate inglesi contro il Made in Italy è stato in primis, il Mail online, che ha raccolto i pareri di alcuni dentisti. Tra essi il più agguerrito si è rivelato il professor Damien Walmsley, consulente scientifico della British Dental Association, che imputa al Prosecco la presenza di anidride carbonica, oltre agli zuccheri e all'alcool, che metterebbe a rischio i denti, "aumentandone la sensibilità e il rischio di corrosione".
The Guardian, invece, riporta la notizia commentata da Zac Williams, ricordando che questo vino sia diffusissimo da tempo nel Regno Unito. Il cui consumo è di 40 milioni di litri annui. Anche i supermercati lì, fanno a gara per offrire bottiglie a prezzi sempre più competitivi. Però poi, il quotidiano continua elencando le ragioni per "evitare il Prosecco", partendo proprio dalla necessità di preservare il proprio sorriso.
Queste dichiarazioni hanno urtato e non poco il portale italiano Londra Italia. Per l'ennesima volta la nostra Agenzia ha dovuto ribattere accuse immonde e infondate. Il portale ha sottolineato che si tratta di una "fake news" promossa dalla lobby britannica della birra.
L'indiscutibile ed inimitabile bellezza italiana, non è solo quella paesaggistica o artistica, ma è soprattutto quella enogastronomica. Un settore vivo e invidiabile grazie all'accuratezza e all'alta qualità dei prodotti. Basta invidiarci. Per loro buona pace, gli inglesi la devono smettere.
Notizie curiose, psicologia, cultura, arte ed attualità,articoli interessanti e mai pesanti.
giovedì 31 agosto 2017
Dietrofront! Bistecche, formaggi e grassi non sono più nocivi
L'ultimo Congresso dei Cardiologi europei sancisce che per salvaguardare il cuore non si devono limitare i grassi, mentre vengono additati come colpevoli: pane, pasta e dintorni.
In effetti, pure tanti erbivori mangiano solo verde, e qualche cereale e comunque sono grassi e hanno il cuore sovraffaticato. Qualcosa, evidentemente non torna. A Barcellona, città spagnola designata come sede del Congresso mondiale dei Cardiologi europei, si è segnato un punto a favore dei grassi, a scapito dei carboidrati, nell'ambito della dibattuta questione sulla sana alimentazione.
L'analisi è stata presentata dai ricercatori canadesi dello studio PURE al Congresso europeo di cardiologia, controbatte le linee guida attuali che, limitando l'apporto dei grassi totali sotto il 30% dell'energia e i grassi saturi a meno del 10%, non terrebbe conto dell'evidenza emersa dalle loro indagini: secondo cui una dieta ricca di glucidi è associata a un maggior rischio di mortalità, mentre i grassi, sia saturi che insaturi, sarebbero associati a un più basso rischio di mortalità.
Il Prospective Urban Rural Epidemiology (PURE) è uno studio osservazionale commissionato dall'Università di Hamilton, nell'Ontario. Il suo primo scopo sarebbe dovuto essere quello di esaminare l'impatto dell'urbanizzazione sulla prevenzione primordiale (l'attività fisica o i cambiamenti nell'alimentazione), sui fattori di rischio: obesità, ipertensione, dislipidemia e l'insorgenza di malattie cardiovascolari. Poi invece...
Lo studio è stato condotto per 12 anni su oltre 154mila persone tra i 35 e i 70 anni, arruolati tra il 2003 e il 2013 in 18 Paesi ad alto, medio e basso reddito dei cinque continenti. Rappresenta quindi una delle più ampie e dettagliate ricerche sull'argomento.
Alla fine, i sorprendenti risultati, pubblicati contemporaneamente anche su Lancet, sono stati:" Limitare l'assunzione di grassi non migliora la salute delle persone, che invece potrebbero trarre benefici se venisse ridotto l'apporto dei carboidrati al di sotto del 60% dell'energia totale, e aumentando l'assunzione di grassi totali fino al 35%".
Si è giunti a questo risultato associando i risultati ottenuti con quelli relativi agli eventi e alla mortalità cardiovascolare: in totale 5.796 decessi e 4.784 eventi. Gli studiosi hanno notato che gli individui nella classe ad alto consumo di carboidrati avevano un rischio di mortalità aumentato del 28%, rispetto a quelli della classe con il più basso consumo di zuccheri, ma non un maggior rischio cardiovascolare. Invece, gli individui nella fascia alta del consumo di grassi mostravano una riduzione del 23% del rischio di mortalità totale.
Per anni, siamo stati ammorbati dalle linee guida nutrizionali che imponevano una riduzione dei grassi totali e sugli acidi, i grassi saturi e quelli insaturi, invece, e dal sapore, io l'avevo sempre sospettato...le bistecche, i formaggi e qualche grasso fanno bene!
In effetti, pure tanti erbivori mangiano solo verde, e qualche cereale e comunque sono grassi e hanno il cuore sovraffaticato. Qualcosa, evidentemente non torna. A Barcellona, città spagnola designata come sede del Congresso mondiale dei Cardiologi europei, si è segnato un punto a favore dei grassi, a scapito dei carboidrati, nell'ambito della dibattuta questione sulla sana alimentazione.
L'analisi è stata presentata dai ricercatori canadesi dello studio PURE al Congresso europeo di cardiologia, controbatte le linee guida attuali che, limitando l'apporto dei grassi totali sotto il 30% dell'energia e i grassi saturi a meno del 10%, non terrebbe conto dell'evidenza emersa dalle loro indagini: secondo cui una dieta ricca di glucidi è associata a un maggior rischio di mortalità, mentre i grassi, sia saturi che insaturi, sarebbero associati a un più basso rischio di mortalità.
Il Prospective Urban Rural Epidemiology (PURE) è uno studio osservazionale commissionato dall'Università di Hamilton, nell'Ontario. Il suo primo scopo sarebbe dovuto essere quello di esaminare l'impatto dell'urbanizzazione sulla prevenzione primordiale (l'attività fisica o i cambiamenti nell'alimentazione), sui fattori di rischio: obesità, ipertensione, dislipidemia e l'insorgenza di malattie cardiovascolari. Poi invece...
Lo studio è stato condotto per 12 anni su oltre 154mila persone tra i 35 e i 70 anni, arruolati tra il 2003 e il 2013 in 18 Paesi ad alto, medio e basso reddito dei cinque continenti. Rappresenta quindi una delle più ampie e dettagliate ricerche sull'argomento.
Alla fine, i sorprendenti risultati, pubblicati contemporaneamente anche su Lancet, sono stati:" Limitare l'assunzione di grassi non migliora la salute delle persone, che invece potrebbero trarre benefici se venisse ridotto l'apporto dei carboidrati al di sotto del 60% dell'energia totale, e aumentando l'assunzione di grassi totali fino al 35%".
Si è giunti a questo risultato associando i risultati ottenuti con quelli relativi agli eventi e alla mortalità cardiovascolare: in totale 5.796 decessi e 4.784 eventi. Gli studiosi hanno notato che gli individui nella classe ad alto consumo di carboidrati avevano un rischio di mortalità aumentato del 28%, rispetto a quelli della classe con il più basso consumo di zuccheri, ma non un maggior rischio cardiovascolare. Invece, gli individui nella fascia alta del consumo di grassi mostravano una riduzione del 23% del rischio di mortalità totale.
Per anni, siamo stati ammorbati dalle linee guida nutrizionali che imponevano una riduzione dei grassi totali e sugli acidi, i grassi saturi e quelli insaturi, invece, e dal sapore, io l'avevo sempre sospettato...le bistecche, i formaggi e qualche grasso fanno bene!
mercoledì 30 agosto 2017
Individuati i neuroni che afferrano la melodia delle parole
Il cervello riconosce il significato e le emozioni delle parole dalla loro intonazione.
A tutti capita, anche quotidianamente, di cercare di celare il nostro vero pensiero o stato d'animo ponderando accuratamente le parole da usare. Gli scarsi risultati ottenuti non sono completamente imputabili alla nostra scarsa capacità di recitare. Il cervello non lo si frega! Sa riconoscere la "melodia" del linguaggio grazie a neuroni che si accendono in risposta all'intonazione con cui vengono pronunciate le parole, permettendo così d'interpretare il significato delle frasi e le emozioni che esprimono.
Hanno esaminato questo fenomeno i neuroscienziati dall'Università della California a San Francisco e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science. La ricerca mostra che i cambiamenti dell'intonazione della voce durante un discorso sono fondamentali per la buona riuscita della comunicazione. Questo vale soprattutto per le lingue tonali come il cinese-mandarino, dove l'intonazione può cambiare radicalmente il significato delle singole parole, ma vale anche per le altre lingue, dove la stessa frase può arrivare ad assumere valenze molto diverse. Per esempio la semplice frase " A Carlo piacciono i fumetti" può essere pronunciata con un'intonazione discendente, come un'affermazione, oppure in crescendo, come una domanda.
Per comprendere come reagisce il nostro cervello in questi casi, gli autori dello studio hanno monitorato l'attività cerebrale di 10 persone epilettiche cui erano stati impiantati degli elettrodi per localizzare con precisione il focolaio delle crisi in vista dell'intervento neurochirurgico. Durante il monitoraggio, ai pazienti sono state fatte ascoltare diverse frasi pronunciate da una voce sintetica, a volte maschile e a volte femminile, che assumeva diverse intonazioni.
La registrazione dell'attività elettrica del cervello ha così permesso di individuare un particolare gruppo di neuroni in una regione della corteccia uditiva, detta "giro temporale superiore") che si accendono in risposta alle variazioni dell'intonazione della voce, indipendentemente dal contenuto della frase.
Con l'ausilio di un algoritmo che riproduce questo meccanismo nervoso, i ricercatori sono riusciti a prevedere la risposta dei neuroni dei pazienti all'ascolto di centinaia di frasi pronunciate da diverse persone, sottolineando così che i neuroni dell'intonazione sono sensibili alle variazioni della voce che si hanno istante per istante.
Sicuramente questi neuroni, saranno dei neuroni di sesso femminile. Hanno quell'istinto tipico che permette ad alcune persone di captare il vero significato e la vera intenzione delle parole pronunciate.
A tutti capita, anche quotidianamente, di cercare di celare il nostro vero pensiero o stato d'animo ponderando accuratamente le parole da usare. Gli scarsi risultati ottenuti non sono completamente imputabili alla nostra scarsa capacità di recitare. Il cervello non lo si frega! Sa riconoscere la "melodia" del linguaggio grazie a neuroni che si accendono in risposta all'intonazione con cui vengono pronunciate le parole, permettendo così d'interpretare il significato delle frasi e le emozioni che esprimono.
Hanno esaminato questo fenomeno i neuroscienziati dall'Università della California a San Francisco e i risultati sono stati pubblicati sulla rivista Science. La ricerca mostra che i cambiamenti dell'intonazione della voce durante un discorso sono fondamentali per la buona riuscita della comunicazione. Questo vale soprattutto per le lingue tonali come il cinese-mandarino, dove l'intonazione può cambiare radicalmente il significato delle singole parole, ma vale anche per le altre lingue, dove la stessa frase può arrivare ad assumere valenze molto diverse. Per esempio la semplice frase " A Carlo piacciono i fumetti" può essere pronunciata con un'intonazione discendente, come un'affermazione, oppure in crescendo, come una domanda.
Per comprendere come reagisce il nostro cervello in questi casi, gli autori dello studio hanno monitorato l'attività cerebrale di 10 persone epilettiche cui erano stati impiantati degli elettrodi per localizzare con precisione il focolaio delle crisi in vista dell'intervento neurochirurgico. Durante il monitoraggio, ai pazienti sono state fatte ascoltare diverse frasi pronunciate da una voce sintetica, a volte maschile e a volte femminile, che assumeva diverse intonazioni.
La registrazione dell'attività elettrica del cervello ha così permesso di individuare un particolare gruppo di neuroni in una regione della corteccia uditiva, detta "giro temporale superiore") che si accendono in risposta alle variazioni dell'intonazione della voce, indipendentemente dal contenuto della frase.
Con l'ausilio di un algoritmo che riproduce questo meccanismo nervoso, i ricercatori sono riusciti a prevedere la risposta dei neuroni dei pazienti all'ascolto di centinaia di frasi pronunciate da diverse persone, sottolineando così che i neuroni dell'intonazione sono sensibili alle variazioni della voce che si hanno istante per istante.
Sicuramente questi neuroni, saranno dei neuroni di sesso femminile. Hanno quell'istinto tipico che permette ad alcune persone di captare il vero significato e la vera intenzione delle parole pronunciate.
martedì 29 agosto 2017
Il caveau di libri del Papa
Un patrimonio letterario. Nella Biblioteca Apostolica Vaticana si possono trovare migliaia di volumi ingialliti dai secoli, laboratori supertecnologici con formati utilizzati anche dalla Nasa, come Vangeli, Testi Sacri accatastati insieme ai più antichi libri di medicina o le prime cartine geografiche.
In base alla personalità e agli interessi di ognuno, una determinata cosa può assumere il valore di tesoro. Obbiettivamente, nel cuore del più piccolo Stato del mondo c'è una delle collezioni librarie più ricche del pianeta, un bunker di sapere che ora sarà aperto alla consultazione da ogni angolo del mondo grazie alla digitalizzazione. Un tesoro della conoscenza.
La Biblioteca Apostolica Vaticana fu fondata nel IV secolo. Invece la storia della "biblioteca moderna" patrimonio di 180 mila volumi manoscritti d'archivio, 1 milione e 600 mila libri stampati, 8.600 incunaboli, 300 mila tra monete e medaglie, 150 mila stampe e disegni e 150 mila fotografie, cominciò nel 1451 per arrivare a Papa Sisto V che tra il 1587 e il 1589 realizzò l'attuale Biblioteca.
Ogni giorno si recano in questi luoghi circa 200 studiosi numero potenzialmente in crescita poiché si è deciso di rendere la biblioteca online per poter permettere a chiunque di consultarla quotidianamente da ogni parte del mondo. La sfida della digitalizzazione è già partita ed è stato messo online l'11% del patrimonio.
Per supportare il progetto è stata proposta l'Eneide 2.0, un "Folio" del Virgilio Vaticano, manoscritto realizzato intorno al 400 d.C., digitalizzato e stampato in 200 copie che verranno date a chi farà una donazione.
Digitalizzare una tale mole di testi che anticamente venivano tramandati attraverso il lavoro degli "amanuensi" non è cosa facile ed ha un costo. I testi devono essere fotografati e scannerizzati, ma prima i volumi devono passare anche per il laboratorio di restauro. La clinica dei libri del Papa dove si opera rigorosamente a mani nude e camici bianchi.
Materialmente, per chi non ci fosse mai stato, il "bunker" di questo patrimonio letterario si trova nel Salone Sistino che è il cuore della BAV, Biblioteca Apostolica Vaticana, interamente affrescato. È una grande aula a due navate, lunga 70 metri e larga 11, all'ultimo piano dell'edificio, voluta da Papa Sisto V.
Sono pochi quelli che renderebbero pubblico e usufruibile ai più il proprio tesoro. La Chiesa invece è di tutti, come il sapere e la grande apertura del pensiero di Papa Bergoglio. Quale modo migliore di far connettere il mondo alla propria casa se non attraverso i libri?
In base alla personalità e agli interessi di ognuno, una determinata cosa può assumere il valore di tesoro. Obbiettivamente, nel cuore del più piccolo Stato del mondo c'è una delle collezioni librarie più ricche del pianeta, un bunker di sapere che ora sarà aperto alla consultazione da ogni angolo del mondo grazie alla digitalizzazione. Un tesoro della conoscenza.
La Biblioteca Apostolica Vaticana fu fondata nel IV secolo. Invece la storia della "biblioteca moderna" patrimonio di 180 mila volumi manoscritti d'archivio, 1 milione e 600 mila libri stampati, 8.600 incunaboli, 300 mila tra monete e medaglie, 150 mila stampe e disegni e 150 mila fotografie, cominciò nel 1451 per arrivare a Papa Sisto V che tra il 1587 e il 1589 realizzò l'attuale Biblioteca.
Ogni giorno si recano in questi luoghi circa 200 studiosi numero potenzialmente in crescita poiché si è deciso di rendere la biblioteca online per poter permettere a chiunque di consultarla quotidianamente da ogni parte del mondo. La sfida della digitalizzazione è già partita ed è stato messo online l'11% del patrimonio.
Per supportare il progetto è stata proposta l'Eneide 2.0, un "Folio" del Virgilio Vaticano, manoscritto realizzato intorno al 400 d.C., digitalizzato e stampato in 200 copie che verranno date a chi farà una donazione.
Digitalizzare una tale mole di testi che anticamente venivano tramandati attraverso il lavoro degli "amanuensi" non è cosa facile ed ha un costo. I testi devono essere fotografati e scannerizzati, ma prima i volumi devono passare anche per il laboratorio di restauro. La clinica dei libri del Papa dove si opera rigorosamente a mani nude e camici bianchi.
Materialmente, per chi non ci fosse mai stato, il "bunker" di questo patrimonio letterario si trova nel Salone Sistino che è il cuore della BAV, Biblioteca Apostolica Vaticana, interamente affrescato. È una grande aula a due navate, lunga 70 metri e larga 11, all'ultimo piano dell'edificio, voluta da Papa Sisto V.
Sono pochi quelli che renderebbero pubblico e usufruibile ai più il proprio tesoro. La Chiesa invece è di tutti, come il sapere e la grande apertura del pensiero di Papa Bergoglio. Quale modo migliore di far connettere il mondo alla propria casa se non attraverso i libri?
Dieci miliardi di alberi per dire no alle politiche di Trump
In ordine cronologico è solo l'ultima delle campagne lanciate contro le politiche sul clima del Presidente Trump. Tre ambientalisti neozelandesi hanno escogitato un piano.
Al male si risponde con il bene. E all'inquinamento come si risponde? Tre attivisti ambientalisti neozelandesi non hanno dubbi. Daniel Price, Adrien Taylor e Jeff Willis hanno indetto la campagna internazionale "Trump Forest" (La foresta di Trump). Pienteranno 10 miliardi di alberi per compensare l'aumento di emissioni di anidride carbonica (CO2) dovuto alle politiche del Presidente americano che ben vedono le fonti fossili.
I tre calcolano che l'uscita degli Stati Uniti dall'Accordo di Parigi sul clima, decisa dal Presidente, provocherà l'emissione di 650 milioni di tonnellate di CO2 in più da qui al 2025. Per assorbire questa massa di gas serra, secondo i tre serve una foresta di 100 mila km quadrati, grande come lo stato del Kentucky, per un totale di 10 miliardi di alberi.
La campagna trumpforest.com è attiva online. Con un click si chiede agli aderenti di piantare alberi direttamente o finanziare progetti di rimboschimento e mandare la ricevuta della spesa sostenuta. Tema del programma e motto morale è: "La foresta di Trump: dove l'ignoranza fa crescere gli alberi".
Già 1644 persone e quindi altrettante risorse verdi, hanno aderito all'appello. Sono stati piantati quasi 464 mila alberi, con un investimento di circa 60 mila dollari.
Non è la cifra in sé o il costo che "adottare una pianta" può comportare. La cosa importante di questa iniziativa è che si dà voce e modo di gridare aiuto a tutti quegli alberi, a quel verde che a causa dell'inquinamento non è più tale. La natura grida il suo bisogno di aiuto e se una bieca politica economica non vuole ascoltarlo, tocca agli altri aiutarla a gridare più forte.
Al male si risponde con il bene. E all'inquinamento come si risponde? Tre attivisti ambientalisti neozelandesi non hanno dubbi. Daniel Price, Adrien Taylor e Jeff Willis hanno indetto la campagna internazionale "Trump Forest" (La foresta di Trump). Pienteranno 10 miliardi di alberi per compensare l'aumento di emissioni di anidride carbonica (CO2) dovuto alle politiche del Presidente americano che ben vedono le fonti fossili.
I tre calcolano che l'uscita degli Stati Uniti dall'Accordo di Parigi sul clima, decisa dal Presidente, provocherà l'emissione di 650 milioni di tonnellate di CO2 in più da qui al 2025. Per assorbire questa massa di gas serra, secondo i tre serve una foresta di 100 mila km quadrati, grande come lo stato del Kentucky, per un totale di 10 miliardi di alberi.
La campagna trumpforest.com è attiva online. Con un click si chiede agli aderenti di piantare alberi direttamente o finanziare progetti di rimboschimento e mandare la ricevuta della spesa sostenuta. Tema del programma e motto morale è: "La foresta di Trump: dove l'ignoranza fa crescere gli alberi".
Già 1644 persone e quindi altrettante risorse verdi, hanno aderito all'appello. Sono stati piantati quasi 464 mila alberi, con un investimento di circa 60 mila dollari.
Non è la cifra in sé o il costo che "adottare una pianta" può comportare. La cosa importante di questa iniziativa è che si dà voce e modo di gridare aiuto a tutti quegli alberi, a quel verde che a causa dell'inquinamento non è più tale. La natura grida il suo bisogno di aiuto e se una bieca politica economica non vuole ascoltarlo, tocca agli altri aiutarla a gridare più forte.
lunedì 28 agosto 2017
Il mito dello Stradivari intaccato dai violini moderni
Un esperimento di acustica promuove i violini moderni.
A volte accade: l'alunno supera il maestro. Così il mito dello Stradivari vacilla, in un esperimento a degli esperti di musica è stato fatto ascoltare "alla cieca" il suono di pregiati violini d'epoca e di violini moderni. Sono stati decisamente premiati i secondi, rilevando che hanno un suono migliore. La ricerca è stata condotta dall'esperta di acustica Claudia Fritz e dai suoi collaboratori della Pierre and Marie Curie University di Parigi e successivamente pubblicata sulla rivista dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, Pnas.
I violini sono stati testati "alla cieca" in due sale da concerto a Parigi e a New York, dei musicisti professionisti si sono esibiti sia da soli che in un'orchestra, con strumenti antichi e moderni, compresi alcuni Stradivari. Una giuria di esperti formata da violinisti, liutai, compositori e critici musicali dovevano valutare il suono degli strumenti. La stragrande maggioranza ha preferito i violini moderni.
Un esperimento simile e con simile risultato era stato già condotto nel 2012. All'epoca venne sollevata la questione sulle condizioni in cui era stato condotto l'esperimento, in ambiente controllato e con acustica asciutta. Per questo motivo, questa volta, l'esperimento è stato riprodotto in sale da concerto.
Naturalmente, questo esperimento di per sé non lede minimamente la presunta superiorità degli Stradivari. Concorrono diversi fattori come il fatto che la relazione tra il musicista e il suo strumento va al di là delle caratteristiche misurabili, e può essere profondamente personale.
Il violinista Stephane Tran Ngoc, che aveva preso parte all'esperimento del 2012, sostiene che far suonare un musicista con uno strumento che non gli è familiare non rende giustizia a nessuno dei due. "Spesso, con gli strumenti antichi è necessario esercitarsi per molto tempo, per capire come esprimere al meglio le loro potenzialità. Un antico violino italiano produrrà un suono sempre migliore man mano che viene suonato, al contrario di molti strumenti moderni".
Insomma, uno strumento antico fa tanto, è a tutti gli effetti un'opera d'arte, ma sta pure agli occhi di chi guarda, o in questo caso alle mani di chi lo accorda, di farne uscire al massimo la capacità espressiva.
A volte accade: l'alunno supera il maestro. Così il mito dello Stradivari vacilla, in un esperimento a degli esperti di musica è stato fatto ascoltare "alla cieca" il suono di pregiati violini d'epoca e di violini moderni. Sono stati decisamente premiati i secondi, rilevando che hanno un suono migliore. La ricerca è stata condotta dall'esperta di acustica Claudia Fritz e dai suoi collaboratori della Pierre and Marie Curie University di Parigi e successivamente pubblicata sulla rivista dell'Accademia delle Scienze degli Stati Uniti, Pnas.
I violini sono stati testati "alla cieca" in due sale da concerto a Parigi e a New York, dei musicisti professionisti si sono esibiti sia da soli che in un'orchestra, con strumenti antichi e moderni, compresi alcuni Stradivari. Una giuria di esperti formata da violinisti, liutai, compositori e critici musicali dovevano valutare il suono degli strumenti. La stragrande maggioranza ha preferito i violini moderni.
Un esperimento simile e con simile risultato era stato già condotto nel 2012. All'epoca venne sollevata la questione sulle condizioni in cui era stato condotto l'esperimento, in ambiente controllato e con acustica asciutta. Per questo motivo, questa volta, l'esperimento è stato riprodotto in sale da concerto.
Naturalmente, questo esperimento di per sé non lede minimamente la presunta superiorità degli Stradivari. Concorrono diversi fattori come il fatto che la relazione tra il musicista e il suo strumento va al di là delle caratteristiche misurabili, e può essere profondamente personale.
Il violinista Stephane Tran Ngoc, che aveva preso parte all'esperimento del 2012, sostiene che far suonare un musicista con uno strumento che non gli è familiare non rende giustizia a nessuno dei due. "Spesso, con gli strumenti antichi è necessario esercitarsi per molto tempo, per capire come esprimere al meglio le loro potenzialità. Un antico violino italiano produrrà un suono sempre migliore man mano che viene suonato, al contrario di molti strumenti moderni".
Insomma, uno strumento antico fa tanto, è a tutti gli effetti un'opera d'arte, ma sta pure agli occhi di chi guarda, o in questo caso alle mani di chi lo accorda, di farne uscire al massimo la capacità espressiva.
Arese, nascerà una pista di sci al coperto
Nel regno dello shopping verrà inaugurato il primo impianto per gli sport invernali, aperto tutto l'anno.
Sarà il primo impianto del genere in Italia. Qui sorgeranno una pista da sci al coperto, un ristorante ed un albergo con le Alpi sullo sfondo. Così Marco Brunelli per il gruppo Finiper pensa al progetto dello Skidome per completare la riqualificazione di una parte dell'ex area Alfa ad Arese. L'idea riprende per grandi linee il modello dello Ski Dubai negli Emirati, consisterà in un'area per gli sport invernali aperta tutto l'anno.
A due passi da Milano, si trova Arese, zona conosciuta ai più perché un tempo era la patria della famosa casa automobilistica. Un anno fa qui invece, ha aperto "Il Centro", lo shopping center tra i più grandi d'Europa. Sebbene questo centro commerciale sia immenso, ha riguardato solo 1/6 di tutta questa vasta area occupata anni addietro dall'Alfa Romeo e che rappresenta ormai un'importante sfida urbanistica del territorio.
Questi 450 mila metri quadri durante l'Expo sono stati adibiti a parcheggio e in effetti oggi hanno la stessa funzione nei giorni di massima affluenza del centro commerciale. Quindi si è pensato di proporre nuove idee per rivalutare la zona.
Tra le varie proposte, la più suggestiva è stata quella pista indoor. Il progetto è stato presentato un anno fa in Regione , per avviare le interminabili richieste di autorizzazioni. Tra le mille piste burocratiche, la realizzazione del complesso, occuperebbe circa 60 mila metri quadrati, e porta la firma di Michele De Lucchi, architetto già autore del Padiglione Zero di Expo. Si tratta di una pista lunga circa 400 metri e larga 60, con un dislivello pure di 60 metri. Sarà sospesa su pilastri, nel verde e rimpolpata da neve artificiale che ne consentirà l'utilizzo in qualsiasi periodo. Un vero e proprio complesso sciistico provvisto anche di albergo e area ristorante.
Il costo dell'operazione si aggira intorno ai 50 milioni di euro, a carico di Snowworld l'azienda interessata. Il progetto è molto interessante e condiviso pure dagli altri comuni limitrofi come Garbagnate,(e dall'Ikea che qui a fianco vorrebbe aprire un nuovo punto vendita), Lainate e in primo Arese. Nonostante il bene stare di tutti rimane lo scoglio delle lungaggini burocratiche.
Ad Arese cominciò il sogno futurista di una delle auto più rappresentative dell'italianità, poi quella di punto di riferimento per il commercio europeo, ora, speriamo bene anche per questa innovativa pista da sci che rappresenterebbe un' innovativa oasi di frescura fruibile tutto l'anno.
Sarà il primo impianto del genere in Italia. Qui sorgeranno una pista da sci al coperto, un ristorante ed un albergo con le Alpi sullo sfondo. Così Marco Brunelli per il gruppo Finiper pensa al progetto dello Skidome per completare la riqualificazione di una parte dell'ex area Alfa ad Arese. L'idea riprende per grandi linee il modello dello Ski Dubai negli Emirati, consisterà in un'area per gli sport invernali aperta tutto l'anno.
A due passi da Milano, si trova Arese, zona conosciuta ai più perché un tempo era la patria della famosa casa automobilistica. Un anno fa qui invece, ha aperto "Il Centro", lo shopping center tra i più grandi d'Europa. Sebbene questo centro commerciale sia immenso, ha riguardato solo 1/6 di tutta questa vasta area occupata anni addietro dall'Alfa Romeo e che rappresenta ormai un'importante sfida urbanistica del territorio.
Questi 450 mila metri quadri durante l'Expo sono stati adibiti a parcheggio e in effetti oggi hanno la stessa funzione nei giorni di massima affluenza del centro commerciale. Quindi si è pensato di proporre nuove idee per rivalutare la zona.
Tra le varie proposte, la più suggestiva è stata quella pista indoor. Il progetto è stato presentato un anno fa in Regione , per avviare le interminabili richieste di autorizzazioni. Tra le mille piste burocratiche, la realizzazione del complesso, occuperebbe circa 60 mila metri quadrati, e porta la firma di Michele De Lucchi, architetto già autore del Padiglione Zero di Expo. Si tratta di una pista lunga circa 400 metri e larga 60, con un dislivello pure di 60 metri. Sarà sospesa su pilastri, nel verde e rimpolpata da neve artificiale che ne consentirà l'utilizzo in qualsiasi periodo. Un vero e proprio complesso sciistico provvisto anche di albergo e area ristorante.
Il costo dell'operazione si aggira intorno ai 50 milioni di euro, a carico di Snowworld l'azienda interessata. Il progetto è molto interessante e condiviso pure dagli altri comuni limitrofi come Garbagnate,(e dall'Ikea che qui a fianco vorrebbe aprire un nuovo punto vendita), Lainate e in primo Arese. Nonostante il bene stare di tutti rimane lo scoglio delle lungaggini burocratiche.
Ad Arese cominciò il sogno futurista di una delle auto più rappresentative dell'italianità, poi quella di punto di riferimento per il commercio europeo, ora, speriamo bene anche per questa innovativa pista da sci che rappresenterebbe un' innovativa oasi di frescura fruibile tutto l'anno.
sabato 26 agosto 2017
Dipendenza da serie tv
Le serie tv non bastano mai e ci rubano il sonno.
Quando comincia la nostra serie televisiva preferita siamo letteralmente rapiti dal piccolo schermo. Siamo capaci di perdere appetito, sonno e rimandare qualsiasi altra attività pur di continuare a guardare un episodio. Ma un nuovo studio Usa, condotto sull'ingordigia televisiva, rivela che i binge watchers (circa il 75% del campione) hanno una probabilità di insonnia del 98% superiore rispetto agli altri.
Gli assetati cronici di serie tv diventano ancora più pallidi e intrattabili del Night King del Trono di Spade, e nelle movenze diurne, ancora più assonnati deglie zombie di The Walking Dead. Così vengono visti i fan delle serie tv che guardano più puntate del loro telefilm preferito in un'unica sessione notturna; la bulimia visiva delle serie tv, fenomeno chiamato, binge Watching, è infatti associata a un rischio raddoppiato di disturbi del sonno.
La ricerca che punta i riflettori su questa allarmante tendenza è stata pubblicata sul Journal of Cinical Sleep Medicine. Lo studio è stato condotto da Jan Van de Bulck, docente di Psicologia dei media all'Università del Michigan, i suoi collaboratori hanno visionato un campione di 423 soggetti di età compresa tra i 13 e i 49 anni e li hanno sottoposti a un questionario studiato per valutare la qualità del sonno e le abitudini di consumo di contenuti video.
I risultati parlano del ben 75% del campione che si è autoidentificato binge watcher, mostrando una probabilità d'insonnia del 98% superiore agli altri.
Jan Van de Bulck spiega:"Fino a qualche anno fa il fenomeno del binge watching era limitato a chi acquistava cofanetti delle serie tv o a chi le scaricava illegalmente da Internet. Ma quando c'è stata l'espansione globale di servizi di streaming come quelli di Netflix, Amazon Prime o Hbo Now è cresciuta l'abitudine di vedere contenuti video su tablet e smartphone, magari anche mentre si è a letto, si sono moltiplicate le occasioni di visione smodata delle serie tv".
Purtroppo, studi dimostrano che guardare troppo le serie tv, può comportare ansia, senso di isolamento e la depressione e poi guardare troppi episodi ripetutamente di una serie, ci fa calare troppo in quel determinato contesto. Invece non ci si trova nel mondo de il Trono di Spade, ma in quello, se pur con mille difetti, reale del 2017.
Quando comincia la nostra serie televisiva preferita siamo letteralmente rapiti dal piccolo schermo. Siamo capaci di perdere appetito, sonno e rimandare qualsiasi altra attività pur di continuare a guardare un episodio. Ma un nuovo studio Usa, condotto sull'ingordigia televisiva, rivela che i binge watchers (circa il 75% del campione) hanno una probabilità di insonnia del 98% superiore rispetto agli altri.
Gli assetati cronici di serie tv diventano ancora più pallidi e intrattabili del Night King del Trono di Spade, e nelle movenze diurne, ancora più assonnati deglie zombie di The Walking Dead. Così vengono visti i fan delle serie tv che guardano più puntate del loro telefilm preferito in un'unica sessione notturna; la bulimia visiva delle serie tv, fenomeno chiamato, binge Watching, è infatti associata a un rischio raddoppiato di disturbi del sonno.
La ricerca che punta i riflettori su questa allarmante tendenza è stata pubblicata sul Journal of Cinical Sleep Medicine. Lo studio è stato condotto da Jan Van de Bulck, docente di Psicologia dei media all'Università del Michigan, i suoi collaboratori hanno visionato un campione di 423 soggetti di età compresa tra i 13 e i 49 anni e li hanno sottoposti a un questionario studiato per valutare la qualità del sonno e le abitudini di consumo di contenuti video.
I risultati parlano del ben 75% del campione che si è autoidentificato binge watcher, mostrando una probabilità d'insonnia del 98% superiore agli altri.
Jan Van de Bulck spiega:"Fino a qualche anno fa il fenomeno del binge watching era limitato a chi acquistava cofanetti delle serie tv o a chi le scaricava illegalmente da Internet. Ma quando c'è stata l'espansione globale di servizi di streaming come quelli di Netflix, Amazon Prime o Hbo Now è cresciuta l'abitudine di vedere contenuti video su tablet e smartphone, magari anche mentre si è a letto, si sono moltiplicate le occasioni di visione smodata delle serie tv".
Purtroppo, studi dimostrano che guardare troppo le serie tv, può comportare ansia, senso di isolamento e la depressione e poi guardare troppi episodi ripetutamente di una serie, ci fa calare troppo in quel determinato contesto. Invece non ci si trova nel mondo de il Trono di Spade, ma in quello, se pur con mille difetti, reale del 2017.
venerdì 25 agosto 2017
Il Tiramisù e la sua paternità contesa
Alla fine, il Friuli batte in volata il Veneto e si aggiudica la paternità del Tiramisù, uno dei dolci più amati al mondo.
È uno dei dolci più tipici e squisiti dell'Italia. Saporito, fresco e facile da preparare. È quasi impossibile che a qualcuno non piaccia ed è sicuramente uno dei primi dolci con cui le giovani ragazze, gli innamorati o gli appassionati di cucina si sono cimentati per realizzarlo. Del Tiramisù può cambiare la forma, ma non gli ingredienti, quelli storici devono essere: savoiardi, mascarpone, caffè, uova, zucchero e cacao.
Per anni due regioni italiane, il Friuli e il Veneto ne hanno rivendicato la paternità. Ora dopo una lunga diatriba ha vinto il Friuli. D'ora in poi potrà rivendicare grazie all'ultimo aggiornamento della lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT), la paternità di questo dessert. Il tiramisù è un dolce molto amato e conosciuto in tutto il mondo, è normale che in più ne rivendichino l'origine. Inoltre la pubblicazione del libro di Clara e Gigi Pedovani: Storia, curiosità, interpretazione del dolce italiano più amato (Giusti editore), ne aveva inasprito la querelle poiché, i due autori fanno risalire le origini di questa specialità a Gorizia e Udine e non, come molti ritenevano, a Treviso.
Adesso, però, su richiesta della Regione Friuli, il tiramisù è ufficialmente nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali friuliani e "quindi riconosciuto come caratteristico del territorio", ha affermato l'Assessore regionale alle Risorse Agricole del Friuli-Venezia Giulia, Cristiano Shaurli. Un risultato importantissimo considerando che il Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali ha aggiornato l'elenco PAT includendovi anche il dolce nelle due versioni storicamente originarie del Friuli: quella canonica più famosa, conosciuta come "Tiramisù" o "Tirami su", e quella triestina, in versione semifreddo.
Le origini del dolce al cucchiaio nella versione classica vanno ricercate nella Tolmesso degli anni '50 dello scorso secolo presso l' albergo Roma, mentre la versione a semifreddo, servita in coppa nota come "Coppa Vetturino Tirami sù", fu prodotta sempre negli anni '50 alla trattoria al Vetturino di Pieris, in provincia di Gorizia.
Questa decisione non è ben vista dal governatore veneto Luca Zaia che promette una battaglia legale e gastronomica. Anche perché il fatto che il tiramisù sia nei prodotti tradizionali del Friuli, non esclude che anche altre regioni possono inserirlo tra i loro.
I PAT sono quei prodotti riconosciuti a partire dal 2000 dal Ministero delle Politiche agricole, in collaborazione con le Regioni, i cui metodi di lavorazione, conservazione, stagionatura sono praticati in un territorio, in maniera omogenea con procedure tradizionali per un periodo continuativo non inferiore a 25 anni. Essere in quell'elenco ha una forte valenza culturale, perché oltre a riconoscerne il nome e l'esistenza, ne evidenzia la tipicità, l'appartenenza storica a un territorio.
Di solito, il dolce è la portata più ambita dell'intero pranzo. Tutti l'aspettano per deliziarsene in compagnia. Per buona pace dei veneti, anche loro dovrebbero fermarsi solo a goderne del sapore.
È uno dei dolci più tipici e squisiti dell'Italia. Saporito, fresco e facile da preparare. È quasi impossibile che a qualcuno non piaccia ed è sicuramente uno dei primi dolci con cui le giovani ragazze, gli innamorati o gli appassionati di cucina si sono cimentati per realizzarlo. Del Tiramisù può cambiare la forma, ma non gli ingredienti, quelli storici devono essere: savoiardi, mascarpone, caffè, uova, zucchero e cacao.
Per anni due regioni italiane, il Friuli e il Veneto ne hanno rivendicato la paternità. Ora dopo una lunga diatriba ha vinto il Friuli. D'ora in poi potrà rivendicare grazie all'ultimo aggiornamento della lista dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali (PAT), la paternità di questo dessert. Il tiramisù è un dolce molto amato e conosciuto in tutto il mondo, è normale che in più ne rivendichino l'origine. Inoltre la pubblicazione del libro di Clara e Gigi Pedovani: Storia, curiosità, interpretazione del dolce italiano più amato (Giusti editore), ne aveva inasprito la querelle poiché, i due autori fanno risalire le origini di questa specialità a Gorizia e Udine e non, come molti ritenevano, a Treviso.
Adesso, però, su richiesta della Regione Friuli, il tiramisù è ufficialmente nella lista dei prodotti agroalimentari tradizionali friuliani e "quindi riconosciuto come caratteristico del territorio", ha affermato l'Assessore regionale alle Risorse Agricole del Friuli-Venezia Giulia, Cristiano Shaurli. Un risultato importantissimo considerando che il Ministero delle Politiche agricole, alimentari e forestali ha aggiornato l'elenco PAT includendovi anche il dolce nelle due versioni storicamente originarie del Friuli: quella canonica più famosa, conosciuta come "Tiramisù" o "Tirami su", e quella triestina, in versione semifreddo.
Le origini del dolce al cucchiaio nella versione classica vanno ricercate nella Tolmesso degli anni '50 dello scorso secolo presso l' albergo Roma, mentre la versione a semifreddo, servita in coppa nota come "Coppa Vetturino Tirami sù", fu prodotta sempre negli anni '50 alla trattoria al Vetturino di Pieris, in provincia di Gorizia.
Questa decisione non è ben vista dal governatore veneto Luca Zaia che promette una battaglia legale e gastronomica. Anche perché il fatto che il tiramisù sia nei prodotti tradizionali del Friuli, non esclude che anche altre regioni possono inserirlo tra i loro.
I PAT sono quei prodotti riconosciuti a partire dal 2000 dal Ministero delle Politiche agricole, in collaborazione con le Regioni, i cui metodi di lavorazione, conservazione, stagionatura sono praticati in un territorio, in maniera omogenea con procedure tradizionali per un periodo continuativo non inferiore a 25 anni. Essere in quell'elenco ha una forte valenza culturale, perché oltre a riconoscerne il nome e l'esistenza, ne evidenzia la tipicità, l'appartenenza storica a un territorio.
Di solito, il dolce è la portata più ambita dell'intero pranzo. Tutti l'aspettano per deliziarsene in compagnia. Per buona pace dei veneti, anche loro dovrebbero fermarsi solo a goderne del sapore.
La startup che coltiva pomodori
È la serra hi-tech più grande d'Italia. L'azienda si chiama Sfera e ha ottenuto un finanziamento da 12 milioni di euro per costruire a Grosseto la più estesa coltivazione idroponica del Paese.
Se vi dicono di andare a zappare, fatelo in grande stile. Così hanno fatto quelli di Sfera che hanno ripensato uno dei più antichi mestieri del mondo, coltivare pomodori e lattuga. È un'azienda innovativa che propone agricoltura idroponica, invece che nel terreno le piante vengono cresciute con le radici sospese in un materiale inerte, per risparmiare acqua ed evitare la dispersione dei nutrienti. Galimberti, il fondatore, asserisce che:"Con questa tecnologia il consumo di acqua viene ridotto del 90%".
Questo tipo di coltivazione è molto diffuso in Nord Europa mentre in Italia deve ancora prendere piede. Ci vogliono investimenti considerevoli. Luigi Galimberti è stato coraggioso, ha fondato Sfera, la sua startup è riuscita a trovare 11,4milioni di euro grazie a Bancaimpresa, l'istituto di credito per aziende del Gruppo Iccrea. Questi soldi verranno investiti per costruire la prima serra hi-tech a Gavorrano in provincia di Grosseto. Estesa su 13 ettari, sarà la più grande d'Italia. Qui si coltiveranno pomodori, lattughe e erbe aromatiche. L'impianto sarà terminato entro la fine di quest'anno e quindi per l'inizio del prossimo, si aspetta il raccolto.
La tecnologia usata sarà la stessa già felicemente collaudata per le colture idroponiche all'estero. Ciò che riqualifica Sfera come una startup innovativa è l'approccio manageriale alla produzione, poco conosciuta nelle nostre campagne dove la regola è quella delle piccole aziende familiari.
Galimberti riporta:"Siamo partiti dall'analisi dei bisogni e delle tecnologie disponibili, creando un modello d'impresa sostenibile. L'idroponica permette di produrre 40 chili di prodotto per metro quadrato, rispetto agli 8 delle normali coltivazioni in campo aperto, estendendo il periodo di raccolta a 10mesi. L'effetto del suolo, che normalmente interagisce con i nutrienti e li altera è eliminato, il consumo di acqua ridotto fino al 90% grazie all'irragazione a goccia". Il ritorno pressoché certo sul capitale, unito alle garanzie comunitarie del Fondo europeo per gli investimenti, ha permesso a Sfera di accedere a un prestito bancario così elevato.
Galimberti inoltre assicura un prodotto di ottima qualità. Verrà studiato un mix di nutrienti adatto per accontentare il palato. Inoltre produrrà dei pomodori nichel free per venire incontro a tutte quelle donne, circa il 30%, che ne sono allergiche. E proprio questa etichetta nichel free ha aiutato Sfera ad attirare l'attenzione di tre catene della grande distribuzione, due italiane e una francese.
La tecnologia va avanti e anche l'agricoltura si adegua. Ben venga se così facendo si producono ortaggi molto controllati e con un sostanzioso risparmio d'acqua.
Se vi dicono di andare a zappare, fatelo in grande stile. Così hanno fatto quelli di Sfera che hanno ripensato uno dei più antichi mestieri del mondo, coltivare pomodori e lattuga. È un'azienda innovativa che propone agricoltura idroponica, invece che nel terreno le piante vengono cresciute con le radici sospese in un materiale inerte, per risparmiare acqua ed evitare la dispersione dei nutrienti. Galimberti, il fondatore, asserisce che:"Con questa tecnologia il consumo di acqua viene ridotto del 90%".
Questo tipo di coltivazione è molto diffuso in Nord Europa mentre in Italia deve ancora prendere piede. Ci vogliono investimenti considerevoli. Luigi Galimberti è stato coraggioso, ha fondato Sfera, la sua startup è riuscita a trovare 11,4milioni di euro grazie a Bancaimpresa, l'istituto di credito per aziende del Gruppo Iccrea. Questi soldi verranno investiti per costruire la prima serra hi-tech a Gavorrano in provincia di Grosseto. Estesa su 13 ettari, sarà la più grande d'Italia. Qui si coltiveranno pomodori, lattughe e erbe aromatiche. L'impianto sarà terminato entro la fine di quest'anno e quindi per l'inizio del prossimo, si aspetta il raccolto.
La tecnologia usata sarà la stessa già felicemente collaudata per le colture idroponiche all'estero. Ciò che riqualifica Sfera come una startup innovativa è l'approccio manageriale alla produzione, poco conosciuta nelle nostre campagne dove la regola è quella delle piccole aziende familiari.
Galimberti riporta:"Siamo partiti dall'analisi dei bisogni e delle tecnologie disponibili, creando un modello d'impresa sostenibile. L'idroponica permette di produrre 40 chili di prodotto per metro quadrato, rispetto agli 8 delle normali coltivazioni in campo aperto, estendendo il periodo di raccolta a 10mesi. L'effetto del suolo, che normalmente interagisce con i nutrienti e li altera è eliminato, il consumo di acqua ridotto fino al 90% grazie all'irragazione a goccia". Il ritorno pressoché certo sul capitale, unito alle garanzie comunitarie del Fondo europeo per gli investimenti, ha permesso a Sfera di accedere a un prestito bancario così elevato.
Galimberti inoltre assicura un prodotto di ottima qualità. Verrà studiato un mix di nutrienti adatto per accontentare il palato. Inoltre produrrà dei pomodori nichel free per venire incontro a tutte quelle donne, circa il 30%, che ne sono allergiche. E proprio questa etichetta nichel free ha aiutato Sfera ad attirare l'attenzione di tre catene della grande distribuzione, due italiane e una francese.
La tecnologia va avanti e anche l'agricoltura si adegua. Ben venga se così facendo si producono ortaggi molto controllati e con un sostanzioso risparmio d'acqua.
giovedì 24 agosto 2017
Ripartire dalla via delle lenticchie
È l'oro di Castelluccio: le lenticchie del dopo terremoto. Gli agricoltori nella distesa di Pian Grande affermano:"Il sisma non ha distrutto la nostra forza e la nostra tenacia".
È passato preciso un anno. Intorno ancora tutto parla di distruzione, ma salvata la fioritura si è avuto anche il primo raccolto. Gli agricoltori sono contenti, la ripresa parte da qui. Mentre tutto è farraginoso e lento a sbloccarsi a Castelluccio si ritorna alla vita normale, ai campi ai pascoli, al recupero di un'economia messa a terra dal sisma dell'anno scorso, le cui macerie sono per lo più intonse, transenne e zone rosse dal centro storico di Norcia fino al cuore di Castelluccio.
Comunque la disperazione non è salita fino ai 1400 metri dell'altipiano, diventato famoso proprio per la fioritura dei campi di lenticchie. Gianni Coccia, uno degli agricoltori racconta:"Abbiamo dovuto lottare per tornare qui a seminare, per salire i nostri trattori quando tutti ci dicevano che era impossibile. Ma di questa terra vivono oltre 300 famiglie, ci lavorano da generazioni, ci sono giovani che hanno scelto di restare qui o coltivare le lenticchie invece di andarsene, non potevamo arrenderci. Abbiamo salvato la Fioritura e il raccolto, anche se quest'anno è più scarso del solito, soltanto 3000 quintali, a causa della siccità".
Mentre i media e i politici continuano a sfruttare la situazione e le telecamere, per questo popolo il giorno della rinascita coincide con il giorno della trebbiatura. Proprio il primo giorno della trebbiatura è diventato una data simbolo di resistenza tra borghi con le case crollate, le chiese distrutte, i cumoli di piatre bianche di edifici secolari venuti giù in un soffio in tutta la Valnerina, in questo territorio di confine tra Umbria e Marche, flagellato per mesi dalle scosse incessanti.
Qui tra i disagi e le strade interrotte, nonostante tutto, i turisti sono tornati sull'Altopiano per vedere la fioritura delle lenticchie che colorano le terre di Castelluccio come un arcobaleno. "Una dimostrazione della tenacia degli agricoltori, che non hanno mai voluto abbandonare le loro attività dormendo nei container, e hanno ricostruito stalle e seminato la terra", sottolinea Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti. Indica le trebbiatrici lungo i 700 ettari della distesa. Le persone hanno apprezzato "la produzione d'eccellenza al di là della quantità". Le lenticchie sono un traino per tutta l'economia, per lo più basata sui prodotti tipici di questa zona.
Quando nasce un fiore nasce una speranza, Castelluccio è famosa per le sue pittoresche fioriture di lenticchie. Tante speranze e tanti desideri che uomini di buona volontà stanno piantando per far ripartire la ripresa.
È passato preciso un anno. Intorno ancora tutto parla di distruzione, ma salvata la fioritura si è avuto anche il primo raccolto. Gli agricoltori sono contenti, la ripresa parte da qui. Mentre tutto è farraginoso e lento a sbloccarsi a Castelluccio si ritorna alla vita normale, ai campi ai pascoli, al recupero di un'economia messa a terra dal sisma dell'anno scorso, le cui macerie sono per lo più intonse, transenne e zone rosse dal centro storico di Norcia fino al cuore di Castelluccio.
Comunque la disperazione non è salita fino ai 1400 metri dell'altipiano, diventato famoso proprio per la fioritura dei campi di lenticchie. Gianni Coccia, uno degli agricoltori racconta:"Abbiamo dovuto lottare per tornare qui a seminare, per salire i nostri trattori quando tutti ci dicevano che era impossibile. Ma di questa terra vivono oltre 300 famiglie, ci lavorano da generazioni, ci sono giovani che hanno scelto di restare qui o coltivare le lenticchie invece di andarsene, non potevamo arrenderci. Abbiamo salvato la Fioritura e il raccolto, anche se quest'anno è più scarso del solito, soltanto 3000 quintali, a causa della siccità".
Mentre i media e i politici continuano a sfruttare la situazione e le telecamere, per questo popolo il giorno della rinascita coincide con il giorno della trebbiatura. Proprio il primo giorno della trebbiatura è diventato una data simbolo di resistenza tra borghi con le case crollate, le chiese distrutte, i cumoli di piatre bianche di edifici secolari venuti giù in un soffio in tutta la Valnerina, in questo territorio di confine tra Umbria e Marche, flagellato per mesi dalle scosse incessanti.
Qui tra i disagi e le strade interrotte, nonostante tutto, i turisti sono tornati sull'Altopiano per vedere la fioritura delle lenticchie che colorano le terre di Castelluccio come un arcobaleno. "Una dimostrazione della tenacia degli agricoltori, che non hanno mai voluto abbandonare le loro attività dormendo nei container, e hanno ricostruito stalle e seminato la terra", sottolinea Roberto Moncalvo, presidente di Coldiretti. Indica le trebbiatrici lungo i 700 ettari della distesa. Le persone hanno apprezzato "la produzione d'eccellenza al di là della quantità". Le lenticchie sono un traino per tutta l'economia, per lo più basata sui prodotti tipici di questa zona.
Quando nasce un fiore nasce una speranza, Castelluccio è famosa per le sue pittoresche fioriture di lenticchie. Tante speranze e tanti desideri che uomini di buona volontà stanno piantando per far ripartire la ripresa.
Ossessione sport per 1 italiano su 3
Un allenamento regolare aiuta a mantenere il benessere fisico e mentale, ma farlo in maniera compulsiva può trasformarsi in una dipendenza patologica.
Una società sempre più salutista o narcisista? Sicuramente gli italiani tengono parecchio alla "cura" del proprio corpo. Ci sono i fissati con la perfezione del corpo, gli abituati alle diete ipocaloriche, i dipendenti da integratori e anabolizzanti. Una lunga varietà di casi che rappresentano il 28% della popolazione. Un italiano su 3 sembra essere ossessionato dallo sport.
L'indagine è stata promossa da Nutrimente Onlus, associazione adibita alla prevenzione e alla conoscenza dei disturbi del comportamento alimentare, condotta su circa 1200 italiani tra uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni e realizzata con metodologia WOA (Web Opinion Analisysis).
Sembra che nel nostro Paese, i dilettanti si sentono atleti. I professionisti dello sport si sottopongono quotidianamente ad allenamenti intensi e diete personalizzati che non consentono il minimo sgarro, lo stesso avviene a livello dilettantistico. Alcuni sono un po' fissati con diete e sport. Negli ultimi anni, sempre di più, queste pratiche si sono diffuse anche tra i non professionisti che frequentano le palestre o seguono programmi di allenamento fai da te, aumentando il rischio per la salute fisica e psicologica.
Proprio in questa nuova concezione dello sport si deve cercare la "fonte" del problema. Praticare attività fisica non viene più visto come un semplice hobby, ma come la sola fonte di gratificazione di una persona. I disturbi correlati a questo stile di vita, non sono pochi. Circa il 79% delle persone quando non riesce ad allenarsi va incontro a un intenso malessere psicologico, il 74% invece sviluppa cambiamenti nel tono dell'umore. Vere e proprie crisi d'astinenza. Questi sintomi sono legati non solo alla qualità di attività fisica svolta, ma anche alle conseguenze sulla vita lavorativa, familiare e sociale della persona.
Tali risultati sono stati riportati dal British Journal of Sports Medicine e la psichiatra Sara Bertelli, presidente dell'Associazione Nutrimente Onlus afferma:" Chi vive lo sport in maniera ossessiva tende a stare molto attento al cambiamento del corpo, controllando la propria immagine allo specchio o tramite il tatto, soprattutto dopo ogni allenamento. Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, le spie di una dipendenza da sport si possono manifestare in vari modi: il timore di perdere massa muscolare, l'angoscia di non potersi allenare ogni giorno o la vergogna al pensiero di mostrarsi senza vestiti, perché non in linea con un ideale di perfezione".
Un'altra aggravante che si aggiunge alla difficoltà degli esperti nel differenziare la pratica sana da quella potenzialmente dannosa, si aggiunge il fatto che la dipendenza da sport è ben visto dalla società. Ormai accettata come una cosa normale.
Fare attività fisica è una cosa bella perché dovrebbe rilassare mente e corpo e ricongiungere all'armonia, se deve diventare una fonte di preoccupazione, stress e quindi un'ossessione ma chi ve lo fa fare?
Una società sempre più salutista o narcisista? Sicuramente gli italiani tengono parecchio alla "cura" del proprio corpo. Ci sono i fissati con la perfezione del corpo, gli abituati alle diete ipocaloriche, i dipendenti da integratori e anabolizzanti. Una lunga varietà di casi che rappresentano il 28% della popolazione. Un italiano su 3 sembra essere ossessionato dallo sport.
L'indagine è stata promossa da Nutrimente Onlus, associazione adibita alla prevenzione e alla conoscenza dei disturbi del comportamento alimentare, condotta su circa 1200 italiani tra uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 65 anni e realizzata con metodologia WOA (Web Opinion Analisysis).
Sembra che nel nostro Paese, i dilettanti si sentono atleti. I professionisti dello sport si sottopongono quotidianamente ad allenamenti intensi e diete personalizzati che non consentono il minimo sgarro, lo stesso avviene a livello dilettantistico. Alcuni sono un po' fissati con diete e sport. Negli ultimi anni, sempre di più, queste pratiche si sono diffuse anche tra i non professionisti che frequentano le palestre o seguono programmi di allenamento fai da te, aumentando il rischio per la salute fisica e psicologica.
Proprio in questa nuova concezione dello sport si deve cercare la "fonte" del problema. Praticare attività fisica non viene più visto come un semplice hobby, ma come la sola fonte di gratificazione di una persona. I disturbi correlati a questo stile di vita, non sono pochi. Circa il 79% delle persone quando non riesce ad allenarsi va incontro a un intenso malessere psicologico, il 74% invece sviluppa cambiamenti nel tono dell'umore. Vere e proprie crisi d'astinenza. Questi sintomi sono legati non solo alla qualità di attività fisica svolta, ma anche alle conseguenze sulla vita lavorativa, familiare e sociale della persona.
Tali risultati sono stati riportati dal British Journal of Sports Medicine e la psichiatra Sara Bertelli, presidente dell'Associazione Nutrimente Onlus afferma:" Chi vive lo sport in maniera ossessiva tende a stare molto attento al cambiamento del corpo, controllando la propria immagine allo specchio o tramite il tatto, soprattutto dopo ogni allenamento. Dal punto di vista cognitivo ed emotivo, le spie di una dipendenza da sport si possono manifestare in vari modi: il timore di perdere massa muscolare, l'angoscia di non potersi allenare ogni giorno o la vergogna al pensiero di mostrarsi senza vestiti, perché non in linea con un ideale di perfezione".
Un'altra aggravante che si aggiunge alla difficoltà degli esperti nel differenziare la pratica sana da quella potenzialmente dannosa, si aggiunge il fatto che la dipendenza da sport è ben visto dalla società. Ormai accettata come una cosa normale.
Fare attività fisica è una cosa bella perché dovrebbe rilassare mente e corpo e ricongiungere all'armonia, se deve diventare una fonte di preoccupazione, stress e quindi un'ossessione ma chi ve lo fa fare?
mercoledì 23 agosto 2017
Yoga mania. Non solo postura, "aiuta a ridurre ansia e stress"
Il convegno dell'American Psychological Association presenta alcuni studi che mostrano come lo yoga potrebbe essere utile a contrastare i sintomi della depressione, pur non essendo un trattamento effettivo.
Nel mondo milioni sono le persone che praticano lo yoga. Una disciplina talmente seguita che ha reso necessario istituire una Giornata Internazionale interamente dedicata ad essa. Le Nazioni Unite hanno scelto la data del 21 Giugno come giorno da riservare a questa millenaria disciplina i cui benefici sono riconosciuti a livello planetario.
Diversi studi avevano dimostrato che lo yoga apporta vantaggi per combattere il mal di schiena, migliora la postura e aiuta a contenere ansia e stress. In questi giorni, durante un convegno dell'American Psychological Association si è ribadito che praticare questa pratica fisica e mentale, avrebbe dei benefici diretti sull'umore e alcune ricerche, nel tempo, hanno mostrato il suo potenziale come antidepressivo. Quindi lo yoga aiuterebbe ad alleviare i sintomi depressivi, e potrebbe considerarsi come una terapia complementare, da affiancare a quelle tradizionali.
Durante il meeting dell'Apa è stato esposto lo studio condotto da Lindsay Hopkins del San Francisco Veterans Affairs Medical Center, lei ha analizzato gli effetti dello hatha yoga su 23 veterani, considerata una popolazione a rischio per i disturbi dell'umore. I soggetti sono stati invitati a praticare per 2 volte a settimana per circa 2 mesi. Alla fine del programma, i sintomi depressivi sembravano ridursi tra coloro con più elevati segni depressivi all'inizio dello studio, in maniera dose-dipendente : più aumentava la frequenza, più diminuivano i sintomi.
Gli stessi risultati sono stati riscontrati anche su un campione di 52 donne di età compresa tra i 25 e i 45 anni, con stress riferito a disordini alimentari, metà delle quali assegnate a un programma di Bikran yoga, una versione di hatha yoga. Anche questa volta, dopo 8 settimane, chi aveva partecipato a sessioni di yoga mostrava meno sintomi di depressione rispetto al gruppo di controllo.
Risultati analoghi sono stati ottenuti in altre sperimentazioni indipendenti e lontane l'una dall'altra. In tutti i casi, precisano i ricercatori si tratta di studi preliminari su piccoli campioni che non consentono conclusioni certe al 100%. La Hopkins chiarisce:"La popolarità della millenaria pratica indiana supera ancora le evidenze scientifiche, per cui non è possibile considerare lo yoga, aldilà del potenziale, un trattamento vero e proprio per i 300 milioni di persone che nel mondo soffrono di depressione. Ad oggi possiamo solo raccomandare lo yoga come approccio complementare, probabilmente più efficace insieme agli approcci standard usati da uno specialista".
L'antica disciplina dello yoga insegna, che non c'è miglior esercizio per il corpo e per la mente, che fermarsi un attimo per guardarsi dentro, cercare l'armonia che c'è in ognuno e riflettere.
Nel mondo milioni sono le persone che praticano lo yoga. Una disciplina talmente seguita che ha reso necessario istituire una Giornata Internazionale interamente dedicata ad essa. Le Nazioni Unite hanno scelto la data del 21 Giugno come giorno da riservare a questa millenaria disciplina i cui benefici sono riconosciuti a livello planetario.
Diversi studi avevano dimostrato che lo yoga apporta vantaggi per combattere il mal di schiena, migliora la postura e aiuta a contenere ansia e stress. In questi giorni, durante un convegno dell'American Psychological Association si è ribadito che praticare questa pratica fisica e mentale, avrebbe dei benefici diretti sull'umore e alcune ricerche, nel tempo, hanno mostrato il suo potenziale come antidepressivo. Quindi lo yoga aiuterebbe ad alleviare i sintomi depressivi, e potrebbe considerarsi come una terapia complementare, da affiancare a quelle tradizionali.
Durante il meeting dell'Apa è stato esposto lo studio condotto da Lindsay Hopkins del San Francisco Veterans Affairs Medical Center, lei ha analizzato gli effetti dello hatha yoga su 23 veterani, considerata una popolazione a rischio per i disturbi dell'umore. I soggetti sono stati invitati a praticare per 2 volte a settimana per circa 2 mesi. Alla fine del programma, i sintomi depressivi sembravano ridursi tra coloro con più elevati segni depressivi all'inizio dello studio, in maniera dose-dipendente : più aumentava la frequenza, più diminuivano i sintomi.
Gli stessi risultati sono stati riscontrati anche su un campione di 52 donne di età compresa tra i 25 e i 45 anni, con stress riferito a disordini alimentari, metà delle quali assegnate a un programma di Bikran yoga, una versione di hatha yoga. Anche questa volta, dopo 8 settimane, chi aveva partecipato a sessioni di yoga mostrava meno sintomi di depressione rispetto al gruppo di controllo.
Risultati analoghi sono stati ottenuti in altre sperimentazioni indipendenti e lontane l'una dall'altra. In tutti i casi, precisano i ricercatori si tratta di studi preliminari su piccoli campioni che non consentono conclusioni certe al 100%. La Hopkins chiarisce:"La popolarità della millenaria pratica indiana supera ancora le evidenze scientifiche, per cui non è possibile considerare lo yoga, aldilà del potenziale, un trattamento vero e proprio per i 300 milioni di persone che nel mondo soffrono di depressione. Ad oggi possiamo solo raccomandare lo yoga come approccio complementare, probabilmente più efficace insieme agli approcci standard usati da uno specialista".
L'antica disciplina dello yoga insegna, che non c'è miglior esercizio per il corpo e per la mente, che fermarsi un attimo per guardarsi dentro, cercare l'armonia che c'è in ognuno e riflettere.
I selfie sono insignificanti per il 53% delle donne
Una ricerca dimostra che il gentil sesso reputa le immagini quotidiane sei volte più motivanti degli autoscatti.
I più non lo vogliono ancora ammettere, ma la società femminile sta cambiando. È cambiato il modo di pensare, di approcciarsi alla vita, di comportarsi e di vedersi. Gli uomini sono più vanitosi e le donne diventano più pratiche, finalizzatrici. Anche nelle foto postate sui social. I selfie sono insignificantiti per il 53% delle donne, che si sentono sei volte più motivate dalle immagini spontanee e quotidiane.
Uno studio condotto sulle emozioni femminili ed effettuato tramite intervista a oltre 7000 donne in 8 Paesi ed in 3 Continenti, sponsorizzato dal marchio di gioielli Pandora, rivela che il sesso femminile preferisce farsi ritrarre in foto mentre passano del tempo con i figli, si allenano, o escono con un'amica, e ancora meglio è se le immagini vengono postate da qualcun'altro.
Secondo la ricerca, quasi la metà delle donne al mondo già cattura momenti quotidiani sul proprio cellulare ma 1 su 3 crede che tentare di realizzare la foto "perfetta" le faccia perdere l'intera esperienza. Inoltre, 3 donne su 4, rinuncerebbero volentieri a scattare o farsi scattare foto per avere più tempo per godersi i piccoli momenti quotidiani della loro vita.
Questa ricerca dimostra che si è di fronte, almeno stando a quanto dichiarato dalle donne intervistate, ad un cambio di rotta, c'è meno interesse ad apparire sui social e più attenzione a godersi gli stralci di vita.
La ricerca è stata inoltre collegata ad un concorso online per la foto più autentica ed emozionante, che entrerà nella campagna "Do see the Wonderful" in uscita a fine mese.
È più importante apparire o essere? Per le donne moderne è importante essere, ma se comunque ogni tanto si deve apparire, lo si fa, in grande stile e mostrando al meglio cosa si è nella vita quotidiana.
I più non lo vogliono ancora ammettere, ma la società femminile sta cambiando. È cambiato il modo di pensare, di approcciarsi alla vita, di comportarsi e di vedersi. Gli uomini sono più vanitosi e le donne diventano più pratiche, finalizzatrici. Anche nelle foto postate sui social. I selfie sono insignificantiti per il 53% delle donne, che si sentono sei volte più motivate dalle immagini spontanee e quotidiane.
Uno studio condotto sulle emozioni femminili ed effettuato tramite intervista a oltre 7000 donne in 8 Paesi ed in 3 Continenti, sponsorizzato dal marchio di gioielli Pandora, rivela che il sesso femminile preferisce farsi ritrarre in foto mentre passano del tempo con i figli, si allenano, o escono con un'amica, e ancora meglio è se le immagini vengono postate da qualcun'altro.
Secondo la ricerca, quasi la metà delle donne al mondo già cattura momenti quotidiani sul proprio cellulare ma 1 su 3 crede che tentare di realizzare la foto "perfetta" le faccia perdere l'intera esperienza. Inoltre, 3 donne su 4, rinuncerebbero volentieri a scattare o farsi scattare foto per avere più tempo per godersi i piccoli momenti quotidiani della loro vita.
Questa ricerca dimostra che si è di fronte, almeno stando a quanto dichiarato dalle donne intervistate, ad un cambio di rotta, c'è meno interesse ad apparire sui social e più attenzione a godersi gli stralci di vita.
La ricerca è stata inoltre collegata ad un concorso online per la foto più autentica ed emozionante, che entrerà nella campagna "Do see the Wonderful" in uscita a fine mese.
È più importante apparire o essere? Per le donne moderne è importante essere, ma se comunque ogni tanto si deve apparire, lo si fa, in grande stile e mostrando al meglio cosa si è nella vita quotidiana.
martedì 22 agosto 2017
I parchi Usa riaprono le porte alle bottigliette d'acqua
Che Trump non sia un naturalista convinto è cosa risaputa. Ora toglie pure il divieto Obama e gli ambientalisti protestano.
Nei parchi nazionali americani si potranno di nuovo comprare, portare e usare le bottigliette di plastica. Dal 2011 grazie a un decreto voluto dall'ex presidente Barack Obama si vietava l'uso delle bottigliette in alcuni luoghi per contrastarne l'inquinamento. In questi giorni, invece, l'amministrazione Trump ha rimosso questa legge, dando il via libera all'uso della plastica.
La decisione è stata resa nota dal National Parks Service, l'Agenzia Federale statunitense incaricata della gestione dei 417 parchi nazionali. Ogni anno, circa 300 milioni di visitatori accorrono in questi posti per deliziarsi degli spettacolari paesaggi naturalistici incontaminati. Ora, riporta il direttore dell'Agenzia, Michael T. Reynolds:" Continueremo a incoraggiare l'uso delle stazioni di rifornimento d'acqua, ma in ultima analisi dovrebbero essere i visitatori a decidere come meglio idratarsi mentre sono in un parco, specialmente in estate".
La decisione presa dal Segretario degli Interni Ryan Zinka, è stata accolta con entusiasmo dall'Associazione Internazionale dell'acqua imbottigliata, che nello scorso Gennaio aveva avviato una campagna contro il divieto di vendita delle bottiglie.
Di tutt'altro parere gli ambientalisti. Loro, sono contrari e hanno cominciato una serie di proteste ed incontri per ripristinare il divieto. Athan Manuel del Sierra Club, afferma:"Questa inversione è solo il simbolo degli attacchi più grandi da parte dell'amministrazione Trump nei confronti della salvaguardia ambientale e della protezione delle terre pubbliche. La decisione è in netta contraddizione con la missione dell'Agenzia, che è quella di proteggere il pianeta".
Non si può dire se sia giusto o meno usare delle modernissime bottigliette d'acqua mentre si fa un'escursione nella natura. Sarebbe più opportuno se tutti fossero più civili e magari pur usando la plastica in determinati luoghi, comunque non inquinassero. Ma gli uomini, spesso non sono educati. E non rispettano l'ecosistema. A questo, forse, avrebbero dovuto pensare le agenzie e i reparti deputati alla salvaguardia naturale.
Nei parchi nazionali americani si potranno di nuovo comprare, portare e usare le bottigliette di plastica. Dal 2011 grazie a un decreto voluto dall'ex presidente Barack Obama si vietava l'uso delle bottigliette in alcuni luoghi per contrastarne l'inquinamento. In questi giorni, invece, l'amministrazione Trump ha rimosso questa legge, dando il via libera all'uso della plastica.
La decisione è stata resa nota dal National Parks Service, l'Agenzia Federale statunitense incaricata della gestione dei 417 parchi nazionali. Ogni anno, circa 300 milioni di visitatori accorrono in questi posti per deliziarsi degli spettacolari paesaggi naturalistici incontaminati. Ora, riporta il direttore dell'Agenzia, Michael T. Reynolds:" Continueremo a incoraggiare l'uso delle stazioni di rifornimento d'acqua, ma in ultima analisi dovrebbero essere i visitatori a decidere come meglio idratarsi mentre sono in un parco, specialmente in estate".
La decisione presa dal Segretario degli Interni Ryan Zinka, è stata accolta con entusiasmo dall'Associazione Internazionale dell'acqua imbottigliata, che nello scorso Gennaio aveva avviato una campagna contro il divieto di vendita delle bottiglie.
Di tutt'altro parere gli ambientalisti. Loro, sono contrari e hanno cominciato una serie di proteste ed incontri per ripristinare il divieto. Athan Manuel del Sierra Club, afferma:"Questa inversione è solo il simbolo degli attacchi più grandi da parte dell'amministrazione Trump nei confronti della salvaguardia ambientale e della protezione delle terre pubbliche. La decisione è in netta contraddizione con la missione dell'Agenzia, che è quella di proteggere il pianeta".
Non si può dire se sia giusto o meno usare delle modernissime bottigliette d'acqua mentre si fa un'escursione nella natura. Sarebbe più opportuno se tutti fossero più civili e magari pur usando la plastica in determinati luoghi, comunque non inquinassero. Ma gli uomini, spesso non sono educati. E non rispettano l'ecosistema. A questo, forse, avrebbero dovuto pensare le agenzie e i reparti deputati alla salvaguardia naturale.
I pesci sentono la plastica come un alimento di cui cibarsi
Gli animali acquatici non ingeriscono accidentalmente il polietilene, se ne nutrono perché per loro, la plastica odora di cibo.
Molti lo affermano da tempo, l'inquinamento dei mari è nocivo anche perché un giorno potrebbe ritornare sulle nostre tavole. Oggi lo confermano gli esperti. I pesci si nutrono di plastica. Lo fanno attivamente, ingannati dal suo odore. I microframmenti plastici, dopo essere stati in mare, assumono secondo le narici degli animali acquatici, il profumo del cibo. Quindi, la plastica ingerita dai pesci, si sedimenta nel loro organismo e da qui entra poi nella catena alimentare e rischia di finire sulle nostre tavole.
Si è occupato di questo fenomeno uno studio pubblicato sulla rivista Proceeding of the Royal Society B. La ricerca è stata coordinata da Matthew Savoca Della Noaa, lui e il suo team hanno scelto l'acciuga come campione da seguire tra una rosa di 50 specie di pesci che si nutrono di plastica. Ad alcuni banchi di acciughe è stato proposto un "menù" a base di due pietanze. I classici krill, piccoli crostacei di cui si cibano diverse specie di pesci e uccelli acquatici e i frammenti di plastica.
Con grande sorpresa, i ricercatori hanno osservato e quindi scoperto che le acciughe si nutrono delle microplastiche al "sapore di mare", sono attratte dal loro odore e le preferiscono addirittura all'altra pietanza classica e più naturale.
A quanto pare, i pesci vengono invogliati a mangiare polietilene, poiché ingannati dalla patina di alghe e altro materiale biologico che avvolge i detriti del mare e che li fa odorare come cibo. Quindi non è la plastica in sé, il suo sapore ammesso che ne abbia qualcuno a renderla appetibile, ma il mescuglio di sensazioni olfattive che stando in mare acquista.
I ricercatori spiegano che ci possano essere "considerevoli implicazioni per le catene alimentari acquatiche e forse per la natura umana".
L'inquinamento viene spesso sottovalutato. Invece, quando s'inquina si commette un atto crimale, un vero e proprio male e si sa il male (fatto) prima o poi ritorna.
Molti lo affermano da tempo, l'inquinamento dei mari è nocivo anche perché un giorno potrebbe ritornare sulle nostre tavole. Oggi lo confermano gli esperti. I pesci si nutrono di plastica. Lo fanno attivamente, ingannati dal suo odore. I microframmenti plastici, dopo essere stati in mare, assumono secondo le narici degli animali acquatici, il profumo del cibo. Quindi, la plastica ingerita dai pesci, si sedimenta nel loro organismo e da qui entra poi nella catena alimentare e rischia di finire sulle nostre tavole.
Si è occupato di questo fenomeno uno studio pubblicato sulla rivista Proceeding of the Royal Society B. La ricerca è stata coordinata da Matthew Savoca Della Noaa, lui e il suo team hanno scelto l'acciuga come campione da seguire tra una rosa di 50 specie di pesci che si nutrono di plastica. Ad alcuni banchi di acciughe è stato proposto un "menù" a base di due pietanze. I classici krill, piccoli crostacei di cui si cibano diverse specie di pesci e uccelli acquatici e i frammenti di plastica.
Con grande sorpresa, i ricercatori hanno osservato e quindi scoperto che le acciughe si nutrono delle microplastiche al "sapore di mare", sono attratte dal loro odore e le preferiscono addirittura all'altra pietanza classica e più naturale.
A quanto pare, i pesci vengono invogliati a mangiare polietilene, poiché ingannati dalla patina di alghe e altro materiale biologico che avvolge i detriti del mare e che li fa odorare come cibo. Quindi non è la plastica in sé, il suo sapore ammesso che ne abbia qualcuno a renderla appetibile, ma il mescuglio di sensazioni olfattive che stando in mare acquista.
I ricercatori spiegano che ci possano essere "considerevoli implicazioni per le catene alimentari acquatiche e forse per la natura umana".
L'inquinamento viene spesso sottovalutato. Invece, quando s'inquina si commette un atto crimale, un vero e proprio male e si sa il male (fatto) prima o poi ritorna.
venerdì 18 agosto 2017
La lavatrice che salverà il pianeta
Uno studente inglese ha brevettato l'eco-invenzione che promette di ridurre le emissioni di CO2.
Finora le più grandi invenzioni sono state associate a cose che con il loro utilizzo possono facilitare la vita delle persone. Oggi, quando il più grande problema è dato dall'inquinamento e dallo sfruttamento delle materie, la più rivoluzionaria invenzione è quella di una lavatrice. Una lavatrice che salverà il pianeta.
L'innovativo elettrodomestico è stato progettato da uno studente, Dylan Knight, dell'Università di Nottingham Trent. Il giovane ha sostituito il calcestruzzo con un contenitore di plastica riuscendo così, a far risparmiare solo nel Regno Unito 45mila tonnellate di CO2. Il fortunato espediente, non solo ha ridotto il peso della lavatrice di 1/3, ma l'ha resa pure green, ecosostenibile. Questa invenzione è il progetto finale di uno studio gestito dalla società Tochi Tech e coordinato dal professore di ingegneria Amin Al Habaibeh.
A raccontarlo sembra quasi banale, praticamente viene sostituito il blocco di calcestruzzo, posizionato dentro la lavatrice come contrappeso, con un contenitore di plastica che viene riempito d'acqua dopo l'installazione. Il trasporto diventa più agevole e sì può risparmiare fino a 45 mila tonnellate di anidride carbonica alle sole macchine vendute nel Regno Unito ogni anno. La maggior parte delle lavatrici ha un blocco in calcestruzzo che si aggira intorno ai 25 kg, è posizionato sulla parte superiore e serve a mantenere stabile la macchina durante il ciclo di centrifuga.
La produzione e il trasporto del calcestruzzo creano emissioni di carbonio e rendono le macchine pesanti per il trasporto, aumentandone quindi i costi del carburante. Invece, il prodotto testato, inventato da Knight è un dispositivo leggero che pesa meno di 3 kg vuoto e funziona benissimo col serbatoio pieno d'acqua al posto del calcestruzzo.
L'inventore commenta così la sua scoperta: "Il contenitore vuoto è lasciato inutilizzato fino all'installazione dell'apparecchio. Abbiamo scoperto che funziona bene, proprio come un contrappeso in calcestruzzo, fermando il tamburo di rotazione durante la pesante vibrazione della macchina. Il calcestruzzo è dannoso per l'ambiente a causa del rilascio di CO2 durante la produzione. Quindi, sostituendolo con un recipiente leggero a cui viene aggiunto dell'acqua dopo la posa della macchina, si raggiunge lo stesso obiettivo, ma con meno dispendio energetico". Se la produzione venisse estesa a livello mondiale, si darebbe un contributo consistente agli sforzi per proteggere il pianeta dalle emissioni di CO2.
Può una lavatrice di ultima generazione vestire i panni di super-eroe e salvare il nostro Pianeta? Sicuramente questa lavatrice lo terrà più pulito dalle emissioni inquinanti e non è cosa da poco, data l'importanza della salvaguardia dell'ecosistema.
Finora le più grandi invenzioni sono state associate a cose che con il loro utilizzo possono facilitare la vita delle persone. Oggi, quando il più grande problema è dato dall'inquinamento e dallo sfruttamento delle materie, la più rivoluzionaria invenzione è quella di una lavatrice. Una lavatrice che salverà il pianeta.
L'innovativo elettrodomestico è stato progettato da uno studente, Dylan Knight, dell'Università di Nottingham Trent. Il giovane ha sostituito il calcestruzzo con un contenitore di plastica riuscendo così, a far risparmiare solo nel Regno Unito 45mila tonnellate di CO2. Il fortunato espediente, non solo ha ridotto il peso della lavatrice di 1/3, ma l'ha resa pure green, ecosostenibile. Questa invenzione è il progetto finale di uno studio gestito dalla società Tochi Tech e coordinato dal professore di ingegneria Amin Al Habaibeh.
A raccontarlo sembra quasi banale, praticamente viene sostituito il blocco di calcestruzzo, posizionato dentro la lavatrice come contrappeso, con un contenitore di plastica che viene riempito d'acqua dopo l'installazione. Il trasporto diventa più agevole e sì può risparmiare fino a 45 mila tonnellate di anidride carbonica alle sole macchine vendute nel Regno Unito ogni anno. La maggior parte delle lavatrici ha un blocco in calcestruzzo che si aggira intorno ai 25 kg, è posizionato sulla parte superiore e serve a mantenere stabile la macchina durante il ciclo di centrifuga.
La produzione e il trasporto del calcestruzzo creano emissioni di carbonio e rendono le macchine pesanti per il trasporto, aumentandone quindi i costi del carburante. Invece, il prodotto testato, inventato da Knight è un dispositivo leggero che pesa meno di 3 kg vuoto e funziona benissimo col serbatoio pieno d'acqua al posto del calcestruzzo.
L'inventore commenta così la sua scoperta: "Il contenitore vuoto è lasciato inutilizzato fino all'installazione dell'apparecchio. Abbiamo scoperto che funziona bene, proprio come un contrappeso in calcestruzzo, fermando il tamburo di rotazione durante la pesante vibrazione della macchina. Il calcestruzzo è dannoso per l'ambiente a causa del rilascio di CO2 durante la produzione. Quindi, sostituendolo con un recipiente leggero a cui viene aggiunto dell'acqua dopo la posa della macchina, si raggiunge lo stesso obiettivo, ma con meno dispendio energetico". Se la produzione venisse estesa a livello mondiale, si darebbe un contributo consistente agli sforzi per proteggere il pianeta dalle emissioni di CO2.
Può una lavatrice di ultima generazione vestire i panni di super-eroe e salvare il nostro Pianeta? Sicuramente questa lavatrice lo terrà più pulito dalle emissioni inquinanti e non è cosa da poco, data l'importanza della salvaguardia dell'ecosistema.
giovedì 17 agosto 2017
Simona conquista l'Himalaya sulla sedia a rotelle
La storia di una 42enne romana che ha affrontato la sua battaglia più dura contro la sclerosi multipla viaggiando per 4 mesi tra India, Bali e Nepal.
E proprio quando dentro di noi scatta quella determinata molla, che non si deve rimandare. Così è stato per Simona Anedda, malata da 5 anni di Sclerosi multipla primariamente progressiva che l'ha costretta su una sedia a rotelle. Ha sempre amato viaggiare e 4 mesi fa ha deciso di fare il viaggio più ambito, quello più difficile, tra Nepal e Indonesia su una sedia a rotelle.
Racconta: "Quando programmavo il mio viaggio in India avevo poche certezze. Una delle poche cose chiare che avevo in mente era il fatto che sarei arrivata ai piedi all'Himalaya. Ce l'ho fatta". Quando chiesi il permesso al medico del San Raffaele di Milano, lui le rispose che sperava stesse scherzando. Invece la donna aveva già deciso di partire e con il biglietto in mano, prese il volo. Simona ha così intrapreso il suo viaggio in Oriente in cui si sono alternate e l'hanno accompagnata 3 diverse assistenti e amiche. Compagne d'avventura tra India, Nepal e Indonesia. Un gruppetto in rosa per tramutare l'impossibile in possibile.
"La malattia mi ha spinto a rivedere le mie priorità, a cambiare prospettiva, anche a chiedere aiuto a persone che non conosco. Vorrei scrivere una serie di guide di viaggio per le persone che hanno le mie stesse difficoltà: a volte non è solo a causa della disabilità che non si viaggia, ma per paura o per carenza di informazioni". Ricorda.
La sua prima tappa è stata Varkala, in Kerala nel sud dell'India. Qui per 45 giorni si è preparata psico-fisicamente al meglio in una clinica ayurvedica, facendo tesoro di massaggi, cibo, relax e impacchi curativi. Una buona dose d'energia per intraprendere il suo cammino su strade spesso nemmeno sterrate e miriadi di buche; ancor più difficile da affrontare se non si è in piedi sulle proprie gambe.
Così è stato più o meno per tutto il tragitto, fino a quando non è arrivata in Nepal per porre fine alla promessa che si era fatta: arrivare in sedia a rotelle fino all'Himalaya. Il primo scoglio, arrivata a Kathmandu è stato respirare, lì il livello d'inquinamento è tra i più alti del pianeta. Si gira con la mascherina. Simona arriva quindi a Nagarat, verso le 4 del mattino. La foschia le impedisce gran parte della visuale e quindi la donna si accontenta per gioco di fare una foto accanto a un poster, ma ce l'ha fatta. Alza il pollice in segno di vittoria. Una vittoria anche contro quella malattia, che durante il lungo tragitto l'ha ulteriormente indebolita.
Tornata in Italia, Simona è felice per l'impresa raggiunta, ma sta meno bene. I medici del San Raffaele dicono che è peggiorata. Purtroppo il suo è un male incurabile e di una tipologia particolarmente veloce nella degenerazione. Qualcuno le propone una nuova cura sperimentale, ma questo le impedirebbe di viaggiare.
Così oggi Simona è ospite di una sua amica che abita vicino al mare. Ha deciso di godersi quello che rimane della sua vita, sdraiata al sole su una panchina. Simona ha scelto la libertà.
Ci sono dei viaggi che non si possono rimandare. A volte hanno le vesti di lunghi tragitti in terre lontane, a volte sono delle lunghe camminate nel percorso interiore di ognuno.
E proprio quando dentro di noi scatta quella determinata molla, che non si deve rimandare. Così è stato per Simona Anedda, malata da 5 anni di Sclerosi multipla primariamente progressiva che l'ha costretta su una sedia a rotelle. Ha sempre amato viaggiare e 4 mesi fa ha deciso di fare il viaggio più ambito, quello più difficile, tra Nepal e Indonesia su una sedia a rotelle.
Racconta: "Quando programmavo il mio viaggio in India avevo poche certezze. Una delle poche cose chiare che avevo in mente era il fatto che sarei arrivata ai piedi all'Himalaya. Ce l'ho fatta". Quando chiesi il permesso al medico del San Raffaele di Milano, lui le rispose che sperava stesse scherzando. Invece la donna aveva già deciso di partire e con il biglietto in mano, prese il volo. Simona ha così intrapreso il suo viaggio in Oriente in cui si sono alternate e l'hanno accompagnata 3 diverse assistenti e amiche. Compagne d'avventura tra India, Nepal e Indonesia. Un gruppetto in rosa per tramutare l'impossibile in possibile.
"La malattia mi ha spinto a rivedere le mie priorità, a cambiare prospettiva, anche a chiedere aiuto a persone che non conosco. Vorrei scrivere una serie di guide di viaggio per le persone che hanno le mie stesse difficoltà: a volte non è solo a causa della disabilità che non si viaggia, ma per paura o per carenza di informazioni". Ricorda.
La sua prima tappa è stata Varkala, in Kerala nel sud dell'India. Qui per 45 giorni si è preparata psico-fisicamente al meglio in una clinica ayurvedica, facendo tesoro di massaggi, cibo, relax e impacchi curativi. Una buona dose d'energia per intraprendere il suo cammino su strade spesso nemmeno sterrate e miriadi di buche; ancor più difficile da affrontare se non si è in piedi sulle proprie gambe.
Così è stato più o meno per tutto il tragitto, fino a quando non è arrivata in Nepal per porre fine alla promessa che si era fatta: arrivare in sedia a rotelle fino all'Himalaya. Il primo scoglio, arrivata a Kathmandu è stato respirare, lì il livello d'inquinamento è tra i più alti del pianeta. Si gira con la mascherina. Simona arriva quindi a Nagarat, verso le 4 del mattino. La foschia le impedisce gran parte della visuale e quindi la donna si accontenta per gioco di fare una foto accanto a un poster, ma ce l'ha fatta. Alza il pollice in segno di vittoria. Una vittoria anche contro quella malattia, che durante il lungo tragitto l'ha ulteriormente indebolita.
Tornata in Italia, Simona è felice per l'impresa raggiunta, ma sta meno bene. I medici del San Raffaele dicono che è peggiorata. Purtroppo il suo è un male incurabile e di una tipologia particolarmente veloce nella degenerazione. Qualcuno le propone una nuova cura sperimentale, ma questo le impedirebbe di viaggiare.
Così oggi Simona è ospite di una sua amica che abita vicino al mare. Ha deciso di godersi quello che rimane della sua vita, sdraiata al sole su una panchina. Simona ha scelto la libertà.
Ci sono dei viaggi che non si possono rimandare. A volte hanno le vesti di lunghi tragitti in terre lontane, a volte sono delle lunghe camminate nel percorso interiore di ognuno.
La miliardesima indiana: Aastha Arora
L'India un paese dalle mille contraddizioni. Diciassette anni fa quando venne alla luce la sua figlia numero 1 miliardo, la nascita simbolo era stata celebrata come un evento. Tante promesse e pochi risultati.
I suoi concittadini indiani si sono ben presto dimenticati di Aastha Arora. Lontana dai clamori, vive con la sua famiglia in un anonimo vicolo di un'ordinaria colonia di case basse conosciuta come Najafyarh Hira Park. Qui vive"baby miliardo" . Per il momento le è proibito usare Facebook, potrà farlo quando avrà terminato l'ultimo anno della Scuola Governativa Girls Senior Number 1.
Solo ora, in occasione dei 70 anni dell'Indipendenza dagli inglesi, i media si sono ricordati di questa particolare cittadina, la numero 1 miliardo, alla cui nascita l'India aveva mostrato apparentemente molto interesse. Ma Aastha vive in un accogliente tinello con le tende chiuse e la luce al neon. Versa del te' e comincia a parlare: "Ogni mattina a scuola suonano l'inno nazionale Vande Mataran, la cosa più bella per me è l'esaltazione della bellezza della nostra natura. Però peccato che ciò non corrisponde alla realtà. Basta guardarsi attorno. Io giro con una mascherina. Dio mio, quando ho rivisto il servizio della Bbc sulla mia nascita, tutta quella gente, quelle cerimonie, le foto di me in braccio ad estranei...assurdo, surreale. Non solo i politici, anche i giornali e le tv come la stessa Bbc mi promettevano un'educazione superiore gratuita, cure mediche speciali, qualcuno perfino una borsa di studio all'estero...ma oggi continuo a frequentare le scuole governative dove c'è molta teoria e poca pratica".
Quello che proprio Aastha non riesce a mandar giù che fin dalla sua nascita, l'11 Maggio del 2000, le avevano predisposto a parole un percorso verso il cielo senza che lei avesse chiesto niente, versarono in banca addirittura 200 mila rupie (3 mila dollari) e poi, finito, tutti scomparsi. Dalle stelle è stata rigettata giù, capendo che tutti quei sogni che le avevano inculcato erano stati fatti da persone che parlavano solo per le telecamere.
Inoltre, il problema che è una ragazzina come tante altre, pure indiane, intelligente e studiosa, vive in un sistema che cambia troppo lentamente. Dalla corruzione, alla mafia, alla scarsa cura dei servizi, alle strade e le case senza lampioni e fogne. Lì non si può uscire dopo le 10 di sera, né sulla strada principale né dentro la colonia. Di giorno girano bande di ragazzi a cui fin da piccoli è stato insegnato che un maschio è più importante della femmina...
A casa Arora non è così. I suoi genitori non hanno mai fatto differenza tra lei e il fratello Mayank. Ma attorno c'è una cultura superficiale, oscurantista e sessista e gran parte della gente è abituata a vivere in un mondo di fantasia dove tutte le cose, anche sbagliate, si riaggiustano da sole come nelle telenovele popolari. Ma la realtà non è così e non è nemmeno quella di Bollywood.
Nelle parole di questa ragazzina si sente tutta l'amarezza di un animo di una persona nata libera, imprigionata nel contraddittorio e arretrato sistema culturale indiano.
mercoledì 16 agosto 2017
Aleandro Mariani, la star della lirica a cui fu detto: "Non ce la farai mai"
L'ugola d'oro del Teatro dell'Opera di Roma, ora tenore affermatissimo, prima di raggiungere i suoi traguardi ha dovuto combattere contro lo scetticismo di chi vive di luoghi comuni.
A volte, tra la realizzazione di un sogno e le proprie aspettative, passa la lingua lunga dei pregiudizi di chi ha menti chiuse. Così è stato per il 27enne Aleandro Mariani, uno dei più affermati cantanti lirici internazionali. Un professore lo prendeva in giro, dicendogli: "Non ce la farai mai".
E invece..."La vita ci offre delle chance e io cerco semplicemente di non sprecarle". Questo dichiara oggi Aleandro, abruzzese di nascita, mentre ripercorre i suoi traguardi con l'ingenuità di chi pensa solo al prossimo obiettivo: "Non inseguo aspirazioni, vado avanti e sposto l'asticella". Lui, che con il talento ha trasformato le circostanze in sfide. Partito a 17 anni come promessa dello sci a tenore del Progetto Young Artist Program al Teatro dell'Opera di Roma un decennio dopo.
Calcando i pavimenti di neve a quelli delle assi di legno del teatro, portandosi sempre dietro la domanda che ogni volta gli ha fatto scattare la molla: "Ma sei davvero sicuro di riuscirci?"
Poi la delusione di non essere potuto entrare nella squadra dei Carabinieri perché ancora troppo giovane. "Ma le opportunità sono ovunque. E il destino di Aleandro l'aspettava in un Autogrill. La nuova chance aveva il volto del cantante d'opera Beniamino Gigli. Durante la sosta di un viaggio verso il ritiro del gruppo sportivo, Aleandro compra un cd dedicato al grande tenore". Fu il colpo di fulmine che lo indirizzo' alla lirica.
Così, a 19 anni, dopo qualche lezione di nascosto, in età avanzata per lo studio della lirica, entra al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, dopo aver superato le audizioni su 150 candidati.
Quando annunciò i brani per le selezioni, come "Nessun dorma", la commissione sorrideva con cinismo e pregiudizio: " Poi è andata come la storia del prof. di liceo con lo sci", sorride ora lui, beffardo. È stata dura. All'inizio Aleandro più che maggiorenne, studiava solfeggi con i bambini di 8 anni; fino ad arrivare nel 2016, laureato in canto lirico a pieni voti e diventare una stella della musica d'opera.
Oggi, la televisione, il web, i media e soprattutto la stragrande maggioranza della società, ci propone, e crea con molta facilità dei miti. Facilmente si ritrovano in cima alla scala grazie all'enorme pubblicità creatasi attorno. Invece, altri, magari davvero talentuosi, devono dapprima lottare con i pregiudizi e il qualunquismo imperante delle persone. La storia di Aleandro insegna che per quanto più dura, la via della determinazione, condotta con passione e sacrificio, porta invece ad una carriera più duratura.
A volte, tra la realizzazione di un sogno e le proprie aspettative, passa la lingua lunga dei pregiudizi di chi ha menti chiuse. Così è stato per il 27enne Aleandro Mariani, uno dei più affermati cantanti lirici internazionali. Un professore lo prendeva in giro, dicendogli: "Non ce la farai mai".
E invece..."La vita ci offre delle chance e io cerco semplicemente di non sprecarle". Questo dichiara oggi Aleandro, abruzzese di nascita, mentre ripercorre i suoi traguardi con l'ingenuità di chi pensa solo al prossimo obiettivo: "Non inseguo aspirazioni, vado avanti e sposto l'asticella". Lui, che con il talento ha trasformato le circostanze in sfide. Partito a 17 anni come promessa dello sci a tenore del Progetto Young Artist Program al Teatro dell'Opera di Roma un decennio dopo.
Calcando i pavimenti di neve a quelli delle assi di legno del teatro, portandosi sempre dietro la domanda che ogni volta gli ha fatto scattare la molla: "Ma sei davvero sicuro di riuscirci?"
- Quella domanda che per la prima volta gli rivolse un suo insegnante del liceo a mo' di sberleffo, commentando con scetticismo e ironia i suoi primi tentativi di "scivolare" veloce sulla neve. Dopo quell'episodio, Aleandro tornato a casa in tuta e scarponi da sci, decise che sarebbe diventato uno sciatore. In un solo anno e mezzo, il goffo ragazzino di un tempo, ammutoliva le prese in giro a suon di gare nella Coppa del Mondo cittadino, fino al podio al campionato interregionale, dopo essere partito per ultimo perché privo di punteggio.
Poi la delusione di non essere potuto entrare nella squadra dei Carabinieri perché ancora troppo giovane. "Ma le opportunità sono ovunque. E il destino di Aleandro l'aspettava in un Autogrill. La nuova chance aveva il volto del cantante d'opera Beniamino Gigli. Durante la sosta di un viaggio verso il ritiro del gruppo sportivo, Aleandro compra un cd dedicato al grande tenore". Fu il colpo di fulmine che lo indirizzo' alla lirica.
Così, a 19 anni, dopo qualche lezione di nascosto, in età avanzata per lo studio della lirica, entra al Conservatorio Santa Cecilia di Roma, dopo aver superato le audizioni su 150 candidati.
Quando annunciò i brani per le selezioni, come "Nessun dorma", la commissione sorrideva con cinismo e pregiudizio: " Poi è andata come la storia del prof. di liceo con lo sci", sorride ora lui, beffardo. È stata dura. All'inizio Aleandro più che maggiorenne, studiava solfeggi con i bambini di 8 anni; fino ad arrivare nel 2016, laureato in canto lirico a pieni voti e diventare una stella della musica d'opera.
Oggi, la televisione, il web, i media e soprattutto la stragrande maggioranza della società, ci propone, e crea con molta facilità dei miti. Facilmente si ritrovano in cima alla scala grazie all'enorme pubblicità creatasi attorno. Invece, altri, magari davvero talentuosi, devono dapprima lottare con i pregiudizi e il qualunquismo imperante delle persone. La storia di Aleandro insegna che per quanto più dura, la via della determinazione, condotta con passione e sacrificio, porta invece ad una carriera più duratura.
50 anni senza Magritte
Mezzo secolo fa scomparve Magritte, il grande pittore belga.
C'è un linguaggio universale, che immediato arriva al cuore delle persone. È il linguaggio della chiarezza, della pulizia delle linee che indirizzano verso il lato giusto della della visione delle cose. Così è l'arte di René Magritte, pittore tra i più amati dal pubblico degli appassionati, soprattutto grazie alla sua capacità di trasmettere mediante il segno pulito e la suggestione della luce il lato arcano delle cose.
Questo straordinario artista si spense il 15 Agosto 1967 per un male incurabile che lo consumo' in brevissimo tempo. Lui è stato un maestro del surrealismo e ha saputo rispecchiare con ironia e spietata efficacia narrativa le inquietudini dell'uomo contemporaneo e della sua mente affollata di domande perennemente insolute. Magritte ha lasciato istantanee vivide del secolo scorso e per questo si conferma un'icona del '900, a cui per celebrare i 50 anni dalla dipartita, sono dedicate numerose iniziative in tutto il mondo.
In primis, in Belgio dove nacque, nel 1898 a Lessines. Qui 14enne dovette affrontare il tremendo shock per il suicidio della madre, buttatasi nel fiume Sambre, e secondo le indiscrezioni pervenute, la donna fu rinvenuta con la testa avvolta nella camicia da notte. Un'immagine tragica che ha profondamente colpito il giovane, tanto da riprodurlo più volte anche nella sua produzione pittorica adulta. Traumi visibili nelle opere: "L'histoire centrale", "Les amants", o "Le fantasticherie del passeggiatore solitario". René si dedicò quindi alla pittura, iscrivendosi nel 1916, all'Accademia delle Belle Arti di Bruxelles, dove s'era trasferito con la famiglia. Seguirono poi il matrimonio con Georgette Berger nel 1923 e il lavoro come grafico nel design di carta da parati.
I suoi esordi artistici erano centrati nel segno delle Avanguardie storiche, guardando sia al Cubismo che al Futurismo fino a quando non ci fu l'incontro fortunato con l'arte di Giorgio De Chirico, allora si segnò il suo passaggio al Surrealismo.
All'apice della sua carriera quando già aveva all'attivo numerose esposizioni, dovette cercare rifugio in Francia per scappare dalle brutture della guerra. Cominciò una nuova fase espressiva che diede vita al nuovo stile detto alla Renoir o solare. Ma fino alla morte, avvenuta il 15 Agosto1967 a Bruxelles, poco dopo la comparsa di un improvviso cancro del pancreas la sua originalissima produzione fu costituita dall' "illusionismo onirico", grazie al quale oggetti comuni e brani di realtà si mescolano, e si armonizzano, in modo assurdo, surreale appunto.
Le tonalità sono fredde, ambigue come quelle del sogno, in grado di far scaturire dalla loro combinazione un vero e proprio cortocircuito visivo e, unite ad uno stile da illustratore, ribadiscono l'insanabile distanza, per l'artista, tra realtà e la sua rappresentazione pittorica.
Ci sono alcune persone che incentrano tutta la vita alla realizzazione di un sogno, poi ce ne sono altre, come il grande Magritte, che dalla realtà, ha dovuto tramutare in sogni alcuni episodi, per renderli più affrontabili e allontanarli dalla precaria fragilità dell'uomo.
C'è un linguaggio universale, che immediato arriva al cuore delle persone. È il linguaggio della chiarezza, della pulizia delle linee che indirizzano verso il lato giusto della della visione delle cose. Così è l'arte di René Magritte, pittore tra i più amati dal pubblico degli appassionati, soprattutto grazie alla sua capacità di trasmettere mediante il segno pulito e la suggestione della luce il lato arcano delle cose.
Questo straordinario artista si spense il 15 Agosto 1967 per un male incurabile che lo consumo' in brevissimo tempo. Lui è stato un maestro del surrealismo e ha saputo rispecchiare con ironia e spietata efficacia narrativa le inquietudini dell'uomo contemporaneo e della sua mente affollata di domande perennemente insolute. Magritte ha lasciato istantanee vivide del secolo scorso e per questo si conferma un'icona del '900, a cui per celebrare i 50 anni dalla dipartita, sono dedicate numerose iniziative in tutto il mondo.
In primis, in Belgio dove nacque, nel 1898 a Lessines. Qui 14enne dovette affrontare il tremendo shock per il suicidio della madre, buttatasi nel fiume Sambre, e secondo le indiscrezioni pervenute, la donna fu rinvenuta con la testa avvolta nella camicia da notte. Un'immagine tragica che ha profondamente colpito il giovane, tanto da riprodurlo più volte anche nella sua produzione pittorica adulta. Traumi visibili nelle opere: "L'histoire centrale", "Les amants", o "Le fantasticherie del passeggiatore solitario". René si dedicò quindi alla pittura, iscrivendosi nel 1916, all'Accademia delle Belle Arti di Bruxelles, dove s'era trasferito con la famiglia. Seguirono poi il matrimonio con Georgette Berger nel 1923 e il lavoro come grafico nel design di carta da parati.
I suoi esordi artistici erano centrati nel segno delle Avanguardie storiche, guardando sia al Cubismo che al Futurismo fino a quando non ci fu l'incontro fortunato con l'arte di Giorgio De Chirico, allora si segnò il suo passaggio al Surrealismo.
All'apice della sua carriera quando già aveva all'attivo numerose esposizioni, dovette cercare rifugio in Francia per scappare dalle brutture della guerra. Cominciò una nuova fase espressiva che diede vita al nuovo stile detto alla Renoir o solare. Ma fino alla morte, avvenuta il 15 Agosto1967 a Bruxelles, poco dopo la comparsa di un improvviso cancro del pancreas la sua originalissima produzione fu costituita dall' "illusionismo onirico", grazie al quale oggetti comuni e brani di realtà si mescolano, e si armonizzano, in modo assurdo, surreale appunto.
Le tonalità sono fredde, ambigue come quelle del sogno, in grado di far scaturire dalla loro combinazione un vero e proprio cortocircuito visivo e, unite ad uno stile da illustratore, ribadiscono l'insanabile distanza, per l'artista, tra realtà e la sua rappresentazione pittorica.
Ci sono alcune persone che incentrano tutta la vita alla realizzazione di un sogno, poi ce ne sono altre, come il grande Magritte, che dalla realtà, ha dovuto tramutare in sogni alcuni episodi, per renderli più affrontabili e allontanarli dalla precaria fragilità dell'uomo.
lunedì 14 agosto 2017
La vera Pufflandia rischia lo sfratto
In Andalusia c'è la città dei Puffi, un intero villaggio tutto blu. Rischia però lo sfratto a causa di una diatriba con gli eredi del fumettista Peyo.
Il vero villaggio dei Puffi non sta nascosto in una foresta, ma in Andalusia e si chiama Juzcar. Per le sue strade si possono incontrare il Grande Puffo, Puffetta e Quattrocchi, o almeno, si poteva fare, perché dal 15 Agosto, i Puffi dovranno lasciare il loro villaggio. Gli eredi del fumettista belga Pierre Culliford, in arte Peyo, e il comune dalle tinte blu, non hanno raggiunto l'accordo per lo sfruttamento della loro immagine.
Per Juzcar, paesino sito ad un'ora dalla Costa del Sol, è una bella sconfitta. Ormai la sua economia era diventata puffocentrica, tutto era riconducibile ai Puffi: negozi di souvenir, ristoranti, bar e abitazioni. L'egemonia blu aveva coperto pure l'alto tasso di disoccupazione che attanaglia il resto dell'Andalusia.
La storia della Pufflandia spagnola è cominciata nel 2011. La Sony Pictures chiese all'allora sindaco David Fernandez di presentare il film I Puffi 3D, trasformato per l'occasione Juzcar nel Villaggio dei Puffi. Tutte le case del paesino, tipicamente tutte bianche, vennero ridipinte di turchese. Così, pure il cimitero, municipio e chiesa. Il contratto prevedeva che terminata la promozione, tutto sarebbe dovuto ritornare al bianco. In un'assemblea di poco più di 200 abitanti s'approvo' il cambio di colore, l'unica eccezione fu quella di un residente, la cui abitazione viene identificata con quella di Gargamella, il nemico dei Puffi.
A sorpresa, però, gli abitanti hanno dimostrato un'inaspettata intraprendenza; sfruttando al massimo il villaggio. Un loro portavoce dichiara al "Pais":"Sapete quante persone venivano qui subito dopo la presentazione del primo film? Tremila. Ci siamo detti diamoci da fare, questo è un miracolo". Così sono nati due nuovi alberghi, ristoranti ed altre attività. La Sony Pictures si è vista costretta a dover ricordare che non è ammesso lo sfruttamento di prodotti non ufficiali.
Nel frattempo a Juzcar c'era chi truccava i volti dei turisti di turchese, chi ha creato il piccolo parco con sagome dei personaggi, chi ha dipinto i Puffi nelle pareti, anche lo stesso ufficio di informazione turistico si trova sotto un gigantesco fungo. Nel paesino così, sono stati attirati 50mila turisti l'anno.
Questo giro d'affari ha fatto innervosire gli eredi di Peyo che rivendicano una royalty del 12 % per le attività legate allo sfruttamento dei Puffi.
L'accordo non è stato raggiunto e quindi il villaggio dei Puffi verrà sfrattato. Causando non poche difficoltà economiche per la zona.
Dai tempi del cartone animato dei Puffi che questa allegra comunità blu ci presenta un ideale di società irrealizzabile. Purtroppo, nella realtà è impossibile anche solo per un piccolo gruppo rappresentare una comunità così coesa e funzionante. Al posto di Grande Puffo, ci sarà sempre la rincorsa individuale al "grande denaro" e il vissero tutti in accordo rimane un'utopia.
Il vero villaggio dei Puffi non sta nascosto in una foresta, ma in Andalusia e si chiama Juzcar. Per le sue strade si possono incontrare il Grande Puffo, Puffetta e Quattrocchi, o almeno, si poteva fare, perché dal 15 Agosto, i Puffi dovranno lasciare il loro villaggio. Gli eredi del fumettista belga Pierre Culliford, in arte Peyo, e il comune dalle tinte blu, non hanno raggiunto l'accordo per lo sfruttamento della loro immagine.
Per Juzcar, paesino sito ad un'ora dalla Costa del Sol, è una bella sconfitta. Ormai la sua economia era diventata puffocentrica, tutto era riconducibile ai Puffi: negozi di souvenir, ristoranti, bar e abitazioni. L'egemonia blu aveva coperto pure l'alto tasso di disoccupazione che attanaglia il resto dell'Andalusia.
La storia della Pufflandia spagnola è cominciata nel 2011. La Sony Pictures chiese all'allora sindaco David Fernandez di presentare il film I Puffi 3D, trasformato per l'occasione Juzcar nel Villaggio dei Puffi. Tutte le case del paesino, tipicamente tutte bianche, vennero ridipinte di turchese. Così, pure il cimitero, municipio e chiesa. Il contratto prevedeva che terminata la promozione, tutto sarebbe dovuto ritornare al bianco. In un'assemblea di poco più di 200 abitanti s'approvo' il cambio di colore, l'unica eccezione fu quella di un residente, la cui abitazione viene identificata con quella di Gargamella, il nemico dei Puffi.
A sorpresa, però, gli abitanti hanno dimostrato un'inaspettata intraprendenza; sfruttando al massimo il villaggio. Un loro portavoce dichiara al "Pais":"Sapete quante persone venivano qui subito dopo la presentazione del primo film? Tremila. Ci siamo detti diamoci da fare, questo è un miracolo". Così sono nati due nuovi alberghi, ristoranti ed altre attività. La Sony Pictures si è vista costretta a dover ricordare che non è ammesso lo sfruttamento di prodotti non ufficiali.
Nel frattempo a Juzcar c'era chi truccava i volti dei turisti di turchese, chi ha creato il piccolo parco con sagome dei personaggi, chi ha dipinto i Puffi nelle pareti, anche lo stesso ufficio di informazione turistico si trova sotto un gigantesco fungo. Nel paesino così, sono stati attirati 50mila turisti l'anno.
Questo giro d'affari ha fatto innervosire gli eredi di Peyo che rivendicano una royalty del 12 % per le attività legate allo sfruttamento dei Puffi.
L'accordo non è stato raggiunto e quindi il villaggio dei Puffi verrà sfrattato. Causando non poche difficoltà economiche per la zona.
Dai tempi del cartone animato dei Puffi che questa allegra comunità blu ci presenta un ideale di società irrealizzabile. Purtroppo, nella realtà è impossibile anche solo per un piccolo gruppo rappresentare una comunità così coesa e funzionante. Al posto di Grande Puffo, ci sarà sempre la rincorsa individuale al "grande denaro" e il vissero tutti in accordo rimane un'utopia.
domenica 13 agosto 2017
Svolta green della McDonald's: in Germania solo vetro e porcellana
Entro il 2019 si arriverà a servire caffè, cappuccino e cioccolata nei bicchieri riciclabili in tutti i 1500 negozi.
Nell'istantanea tipica che ritrae la Germania, si vedono tedeschi che bevono caffè, latte macchiato, cioccolata da asporto. Lo fanno mentre guidano, pedalano o mentre camminano: bicchieri di cartone resistente con coperchio di plastica, litri di bevande calde da tenere tra le mani e tonnellate di confezioni monouso buttate via dopo pochi sorsi. Il bicchiere d'asporto per i tedeschi, e come del resto lo è pure per gli americani è come un'istituzione nazionale, fa parte del costume e del paesaggio.
Ma la McDonald's, invece, ha dichiarato guerra alle tonnellate di spazzatura che questa consuetudine causa. "Entro il 2019 faremo sparire l'usa e getta per le bevande calde dai nostri ristoranti tedeschi"; fanno sapere dalla multinazionale. Già 400 fast food sui 1500 del Paese tedesco stanno cambiando politica e si stanno riconvertendo. Sostituiremo i bicchieri di carta con quelli più ecologici e soprattutto riciclabili di vetro e porcellana.
La svolta epocale è stata comunicata dallo "Spiegel online". Riportando un'idea della McDonald's non del tutto nuova. Già l'anno scorso, la multinazionale faceva portare da casa agli stessi clienti, contenitori o bicchieri da strada che poi venivano riempiti con bevande calde nei suoi punti vendita. Ora punta a riconvertire l'intero sistema di distribuzione, per l'asporto e per il consumo al tavolo del fast food, seguendo regole più green. Niente piatti, per ora si punta solo alle bevande. Un cambio di rotta che parte dall'Alemagna, per quelli che la stessa azienda nomina i "ristoranti del futuro", invocati da tempo dai tedeschi.
Gli ambientalisti di Berlino avevano preso di mira la più autorevole catena al mondo di fast food, criticando l'utilizzo spropositato di imballaggi monouso: "È inutile tutta questa carta plastificata e per di più difficile da riciclare, sprecata per bere un caffè", protestavano. Si consideri inoltre che i punti McDonald sono 30 mila in tutto il mondo e servono 48 miloni di clienti, tutti i giorni, se la novità diventasse la norma, il risparmio di spazzatura sarebbe davvero enorme.
Quando si è colossi, si è colossi in tutto. Molto positiva la risposta della McDonald's che subito ha aderito all'iniziativa e per prima ha optato per una scelta green, volta alla salvaguardia dell'ecologia.
Nell'istantanea tipica che ritrae la Germania, si vedono tedeschi che bevono caffè, latte macchiato, cioccolata da asporto. Lo fanno mentre guidano, pedalano o mentre camminano: bicchieri di cartone resistente con coperchio di plastica, litri di bevande calde da tenere tra le mani e tonnellate di confezioni monouso buttate via dopo pochi sorsi. Il bicchiere d'asporto per i tedeschi, e come del resto lo è pure per gli americani è come un'istituzione nazionale, fa parte del costume e del paesaggio.
Ma la McDonald's, invece, ha dichiarato guerra alle tonnellate di spazzatura che questa consuetudine causa. "Entro il 2019 faremo sparire l'usa e getta per le bevande calde dai nostri ristoranti tedeschi"; fanno sapere dalla multinazionale. Già 400 fast food sui 1500 del Paese tedesco stanno cambiando politica e si stanno riconvertendo. Sostituiremo i bicchieri di carta con quelli più ecologici e soprattutto riciclabili di vetro e porcellana.
La svolta epocale è stata comunicata dallo "Spiegel online". Riportando un'idea della McDonald's non del tutto nuova. Già l'anno scorso, la multinazionale faceva portare da casa agli stessi clienti, contenitori o bicchieri da strada che poi venivano riempiti con bevande calde nei suoi punti vendita. Ora punta a riconvertire l'intero sistema di distribuzione, per l'asporto e per il consumo al tavolo del fast food, seguendo regole più green. Niente piatti, per ora si punta solo alle bevande. Un cambio di rotta che parte dall'Alemagna, per quelli che la stessa azienda nomina i "ristoranti del futuro", invocati da tempo dai tedeschi.
Gli ambientalisti di Berlino avevano preso di mira la più autorevole catena al mondo di fast food, criticando l'utilizzo spropositato di imballaggi monouso: "È inutile tutta questa carta plastificata e per di più difficile da riciclare, sprecata per bere un caffè", protestavano. Si consideri inoltre che i punti McDonald sono 30 mila in tutto il mondo e servono 48 miloni di clienti, tutti i giorni, se la novità diventasse la norma, il risparmio di spazzatura sarebbe davvero enorme.
Quando si è colossi, si è colossi in tutto. Molto positiva la risposta della McDonald's che subito ha aderito all'iniziativa e per prima ha optato per una scelta green, volta alla salvaguardia dell'ecologia.
Defunti trasformati in diamanti
La Svizzera scopre il nuovo business, le ceneri dei defunti vengono trasformate in diamanti.
A volte capita di vedere un gioiello e sentirlo quasi familiare. In effetti potrebbe essere proprio così...Dal 2009 per la modica cifra di 5 mila euro si possono trasformare le ceneri umane in un diamante. Nel mondo si procede al ritmo di 800-900 diamanti umani all'anno, in Italia non si è arrivati a una decina di casi.
I più votati a questa preziosa scelta sono i giapponesi, così come i tedeschi, poi ci sono gli austriaci e gli svizzeri. Popoli diversi per latitudine, cultura e religione, accomunati però dalla pratica di cremare i defunti e, evidentemente, dal piacere di possedere un gioiello particolare. Il processo di "diamantizzazione" si ottiene proprio partendo dal processo di cremazione. Attraverso diversi procedimenti si passa dalle ceneri del caro estinto ad un diamante. Questo processo da circa 10 anni è possibile in uno stabilimento in Svizzera. Loro non si sentono scandalizzati, anzi la società Algordanza si ritiene pure poco soddisfatta della richiesta: "Siamo lontani dalle attese" dichiara l'amministratore delegato della consociata italiana, Walter Mendizza.
Invece nel nostro Paese, c'è chi propone di vietare questo processo giudicandolo "vilipendio di cadavere", è stato presentato proprio un disegno di legge che propone di vietare la "diamantizzazione", estendendo il reato di vilipendio di cadavere.
Tale iniziativa è giunta alle orecchie di Mendizza che ribatte: "I senatori forse non hanno capito bene lo spirito dell'iniziativa. Per noi, la cosa peggiore è l'abbandono dei defunti. Intendo i nostri cimiteri, i luoghi senza alcuna grazia, inadatti ad accogliere i nostri cari. Peggio ancora per la dispersione delle ceneri in aria. Capisco l'aspetto romantico, ma siamo agli antipodi. Il defunto deve essere sempre con noi, in un diamante che portiamo al collo o al dito". Parlando, indica un diamante che porta al collo: " È mia madre".
In Italia comunque c'è un piccolo riscontro. Il cliente tipo di Algordanza è una donna, di buona o ottima cultura, non necessariamente di alta classe sociale. Vive rigorosamente nel Centro-Nord. C'è stato un unico caso in Sicilia.
Gli italiani in linea di massima sono un po' ritrosi alla "diamantizzazione" eppure, c'è chi ne è entusiasta perché vedono una buona occasione per non dimenticare i loro cari e averli sempre con sé.
Contraria incece, anche la religione cattolica. Perché quel passo della Bibbia che fa: "Polvere sei e polvere ritornerai", non si riferisce alle ceneri umane che attraverso un complesso procedimento che le trasforma in carbonio e poi in grafite attraverso acidi, presse, e forni, riproducendo in laboratorio i processi millenari che naturalmente la terra opera.
È una questione bioetica ed anche economica. L'azienda che opera questa trasformazione, sicuramente ci guadagna. Per le persone che poi ne fanno richiesta, la situazione certamente è più complessa. Magari è un modo per tenere accora accanto la persona cara. Sperando che non valga il detto: " Alcune persone valgono più da morte che da vive".
A volte capita di vedere un gioiello e sentirlo quasi familiare. In effetti potrebbe essere proprio così...Dal 2009 per la modica cifra di 5 mila euro si possono trasformare le ceneri umane in un diamante. Nel mondo si procede al ritmo di 800-900 diamanti umani all'anno, in Italia non si è arrivati a una decina di casi.
I più votati a questa preziosa scelta sono i giapponesi, così come i tedeschi, poi ci sono gli austriaci e gli svizzeri. Popoli diversi per latitudine, cultura e religione, accomunati però dalla pratica di cremare i defunti e, evidentemente, dal piacere di possedere un gioiello particolare. Il processo di "diamantizzazione" si ottiene proprio partendo dal processo di cremazione. Attraverso diversi procedimenti si passa dalle ceneri del caro estinto ad un diamante. Questo processo da circa 10 anni è possibile in uno stabilimento in Svizzera. Loro non si sentono scandalizzati, anzi la società Algordanza si ritiene pure poco soddisfatta della richiesta: "Siamo lontani dalle attese" dichiara l'amministratore delegato della consociata italiana, Walter Mendizza.
Invece nel nostro Paese, c'è chi propone di vietare questo processo giudicandolo "vilipendio di cadavere", è stato presentato proprio un disegno di legge che propone di vietare la "diamantizzazione", estendendo il reato di vilipendio di cadavere.
Tale iniziativa è giunta alle orecchie di Mendizza che ribatte: "I senatori forse non hanno capito bene lo spirito dell'iniziativa. Per noi, la cosa peggiore è l'abbandono dei defunti. Intendo i nostri cimiteri, i luoghi senza alcuna grazia, inadatti ad accogliere i nostri cari. Peggio ancora per la dispersione delle ceneri in aria. Capisco l'aspetto romantico, ma siamo agli antipodi. Il defunto deve essere sempre con noi, in un diamante che portiamo al collo o al dito". Parlando, indica un diamante che porta al collo: " È mia madre".
In Italia comunque c'è un piccolo riscontro. Il cliente tipo di Algordanza è una donna, di buona o ottima cultura, non necessariamente di alta classe sociale. Vive rigorosamente nel Centro-Nord. C'è stato un unico caso in Sicilia.
Gli italiani in linea di massima sono un po' ritrosi alla "diamantizzazione" eppure, c'è chi ne è entusiasta perché vedono una buona occasione per non dimenticare i loro cari e averli sempre con sé.
Contraria incece, anche la religione cattolica. Perché quel passo della Bibbia che fa: "Polvere sei e polvere ritornerai", non si riferisce alle ceneri umane che attraverso un complesso procedimento che le trasforma in carbonio e poi in grafite attraverso acidi, presse, e forni, riproducendo in laboratorio i processi millenari che naturalmente la terra opera.
È una questione bioetica ed anche economica. L'azienda che opera questa trasformazione, sicuramente ci guadagna. Per le persone che poi ne fanno richiesta, la situazione certamente è più complessa. Magari è un modo per tenere accora accanto la persona cara. Sperando che non valga il detto: " Alcune persone valgono più da morte che da vive".
sabato 12 agosto 2017
Gli occhi: la parte che più ci attrae nelle persone
In un volto la parte che più cattura la nostra attenzione, sono gli occhi. Lo sguardo riveste un'importanza cruciale sia per le donne che per gli uomini.
Gli occhi non mentono mai. Questo vecchio adagio è correttissimo. Gli occhi davvero non mentono mai, anche perché quando lo fanno, sanno di farlo e quindi si tradiscono. E non solo i bravi criminologi lo capiscono subito. Gli occhi inoltre, hanno il potere di attirare le persone, di canalizzare l'attenzione e rendersi piacenti.
La parte che più attrae di un viso sono gli occhi. Uno sguardo ben calibrato ha un potere magnetico, sia per le donne che per gli uomini. Mentre, per esempio, il naso riveste un'importanza minore quando si va alla ricerca di un partner, così come le labbra carnose.
Si è occupato del fenomeno uno studio della University of Winchester, pubblicato sulla rivista Evolution and Human Behaviour. Praticamente, gli studiosi hanno utilizzato delle fotografie a colori e hanno chiesto a 32 uomini e 32 donne ventenni di valutare volti femminili e maschili dando valutazioni a singole caratteristiche come: occhi, labbra, capelli, naso o nel complesso tutto il volto. Nessuna delle immagini loro mostrate aveva trucco, gioielli, occhiali, orecchini o barba.
I volontari di sesso maschile che hanno osservato un volto femminile, hanno attribuito la massima importanza, tra i particolari, soprattutto agli occhi, seguiti dai capelli, al contrario, le parti ritenute meno interessanti erano considerate il naso e le labbra. Lo stesso risultato si è ottenuto con le donne che osservavano gli uomini, le valutazioni date erano identiche. Cosa curiosa, gli stessi risultati si sono ottenuti anche quando si doveva dare un giudizio su fotografie di persone dello stesso sesso. Escluso il fatto che per le donne che valutavano le foto di altre donne, consideravano tutto l'insieme del volto meno interessante, e non solo il naso e altri particolari.
La scienza insegna che passano i secoli, cambiano i modi e ogni giorno la tecnologia sperimenta nuovi mezzi, ma il più potente comunicatore e trasmettitore di messaggi che l'uomo ha, è lo sguardo.
Gli occhi non mentono mai. Questo vecchio adagio è correttissimo. Gli occhi davvero non mentono mai, anche perché quando lo fanno, sanno di farlo e quindi si tradiscono. E non solo i bravi criminologi lo capiscono subito. Gli occhi inoltre, hanno il potere di attirare le persone, di canalizzare l'attenzione e rendersi piacenti.
La parte che più attrae di un viso sono gli occhi. Uno sguardo ben calibrato ha un potere magnetico, sia per le donne che per gli uomini. Mentre, per esempio, il naso riveste un'importanza minore quando si va alla ricerca di un partner, così come le labbra carnose.
Si è occupato del fenomeno uno studio della University of Winchester, pubblicato sulla rivista Evolution and Human Behaviour. Praticamente, gli studiosi hanno utilizzato delle fotografie a colori e hanno chiesto a 32 uomini e 32 donne ventenni di valutare volti femminili e maschili dando valutazioni a singole caratteristiche come: occhi, labbra, capelli, naso o nel complesso tutto il volto. Nessuna delle immagini loro mostrate aveva trucco, gioielli, occhiali, orecchini o barba.
I volontari di sesso maschile che hanno osservato un volto femminile, hanno attribuito la massima importanza, tra i particolari, soprattutto agli occhi, seguiti dai capelli, al contrario, le parti ritenute meno interessanti erano considerate il naso e le labbra. Lo stesso risultato si è ottenuto con le donne che osservavano gli uomini, le valutazioni date erano identiche. Cosa curiosa, gli stessi risultati si sono ottenuti anche quando si doveva dare un giudizio su fotografie di persone dello stesso sesso. Escluso il fatto che per le donne che valutavano le foto di altre donne, consideravano tutto l'insieme del volto meno interessante, e non solo il naso e altri particolari.
La scienza insegna che passano i secoli, cambiano i modi e ogni giorno la tecnologia sperimenta nuovi mezzi, ma il più potente comunicatore e trasmettitore di messaggi che l'uomo ha, è lo sguardo.
"Gli antichi romani erano molto africani"
Un cartone animato inglese, prodotti dalla Bbc scatena polemiche e critiche. Gli estremisti di destra contestano un centurione romano di colore.
La società romana dell'epoca era evidentemente più tollerante e aperta di quella odierna. Un cartone animato inglese ha scatenato una tempesta d'insulti. Il veicolo maggiore è stato il web dove si sono scatenate quelle persone che cercano di far valere i pregiudizi sulle verità storiche e scientifiche. Gli studiosi e gli esperti sono stati insultati perché hanno cercato di spiegare che l'Impero romano era una società meticcia.
Tutto è cominciato con un documentario realizzato per la Bbc Teach ,3 anni fa, per spiegare la storia della Gran Bretagna. Il filmato è andato in onda però solo pochi giorni fa. Nell'episodio dedicato alla Britannia romana, il protagonista è un centurione di stanza nel Vallo di Adriano. Il soldato romano è di pelle scura, sposato con una donna bianca e hanno due figli mulatti. Questa affettuosa scenetta familiare ha incredibilmente urtato cospirazionisti ed estremisti.
Il primo a dare il via alle polemiche è stato Paul Joseph Watson, attivista della Alt-Right britannica e gestore del sito cospirazionista Infowars, che in un tweet ha duramente attaccato il servizio pubblico radiotelevisivo britannico:"Grazie a Dio la Bbc dipinge una Britannia romana etnicamente variegata. Tanto a chi importa l'accuratezza storica, no?". 140 caratteri infuocati per raccogliere retweet e commenti indignati. Invece si è scatenato l'inferno e hanno risposto i più accreditati studiosi.
Tra essi, il divulgatore Mike Stuchbery, che dapprima furioso, ha poi emanato, sempre via Twitter, documenti per dimostrare che la Britannia era effettivamente, così come tutto l'Impero romano, piena di africani, molti dei quali in posizioni preminenti di potere. I documenti scritti e gli scavi, delucida Stuchbery, dimostrano che la Britannia romana ospitava una grande varietà di etnie, poiché i romani avevano imparato a far arrivare nei territori conquistati le giovani da parti diverse dell'impero. Ciò era particolarmente vero a "Londinium", l'attuale Londra, capitale della provincia. Ma anche nella zona corrispondente alla moderna York ci sono prove di personaggi di spicco nordafricani. Lo studioso, infine, rivolgendosi direttamente a Watson e ai suoi poco informati seguaci chiosa:"Fatevene una ragione: gli antichi romani erano molto africani".
Chissà se Watson avrà imparato la lezione? E chissà i suoi seguaci...pensare che secoli prima, i loro antenati non solo erano di più larghe vedute, ma forse tanti erano molto verosimilmente, proprio di colore.
La società romana dell'epoca era evidentemente più tollerante e aperta di quella odierna. Un cartone animato inglese ha scatenato una tempesta d'insulti. Il veicolo maggiore è stato il web dove si sono scatenate quelle persone che cercano di far valere i pregiudizi sulle verità storiche e scientifiche. Gli studiosi e gli esperti sono stati insultati perché hanno cercato di spiegare che l'Impero romano era una società meticcia.
Tutto è cominciato con un documentario realizzato per la Bbc Teach ,3 anni fa, per spiegare la storia della Gran Bretagna. Il filmato è andato in onda però solo pochi giorni fa. Nell'episodio dedicato alla Britannia romana, il protagonista è un centurione di stanza nel Vallo di Adriano. Il soldato romano è di pelle scura, sposato con una donna bianca e hanno due figli mulatti. Questa affettuosa scenetta familiare ha incredibilmente urtato cospirazionisti ed estremisti.
Il primo a dare il via alle polemiche è stato Paul Joseph Watson, attivista della Alt-Right britannica e gestore del sito cospirazionista Infowars, che in un tweet ha duramente attaccato il servizio pubblico radiotelevisivo britannico:"Grazie a Dio la Bbc dipinge una Britannia romana etnicamente variegata. Tanto a chi importa l'accuratezza storica, no?". 140 caratteri infuocati per raccogliere retweet e commenti indignati. Invece si è scatenato l'inferno e hanno risposto i più accreditati studiosi.
Tra essi, il divulgatore Mike Stuchbery, che dapprima furioso, ha poi emanato, sempre via Twitter, documenti per dimostrare che la Britannia era effettivamente, così come tutto l'Impero romano, piena di africani, molti dei quali in posizioni preminenti di potere. I documenti scritti e gli scavi, delucida Stuchbery, dimostrano che la Britannia romana ospitava una grande varietà di etnie, poiché i romani avevano imparato a far arrivare nei territori conquistati le giovani da parti diverse dell'impero. Ciò era particolarmente vero a "Londinium", l'attuale Londra, capitale della provincia. Ma anche nella zona corrispondente alla moderna York ci sono prove di personaggi di spicco nordafricani. Lo studioso, infine, rivolgendosi direttamente a Watson e ai suoi poco informati seguaci chiosa:"Fatevene una ragione: gli antichi romani erano molto africani".
Chissà se Watson avrà imparato la lezione? E chissà i suoi seguaci...pensare che secoli prima, i loro antenati non solo erano di più larghe vedute, ma forse tanti erano molto verosimilmente, proprio di colore.
venerdì 11 agosto 2017
8733 euro per il sorso più caro della storia
Un cinese paga 8733 euro per un bicchiere di whisky (del 1878).
Spero ne sia valsa davvero la pena. O che almeno bevendolo, il turista cinese abbia placato la sua sete e la sua curiosità. Al Devil's Bar dell'Hotel Waldhaus am See, a Sankt Moritz, un ragazzo asiatico ha sborsato 8733 euro, circa 9.999 franchi svizzeri, per bere un bicchierino (per complessivi 2 centilitri) del rarissimo Macallan millesime del 1878.
Il whisky di 139 anni era stato imbottigliato nel 1905, dopo essere rimasto in botte 27 anni. Il cliente si è detto soddisfatto, mentre il direttore dell'albergo che anch'egli lo ha assaggiato riporta:"Ha un sapore che ricorda il Cognac e richiama anche un po' il Porto".
Il giovane cinese è entrato nel bar e ha chiesto specificatamente di poter assaggiare il Macallan del 1878. Si tratta di una delle 2500 bottiglie da collezione che il bar ha in carta. Sandro Bernasconi, titolare del locale racconta al sito 20minuten la vicenda:"Ho spiegato al cliente che il Macallan più antico non era in vendita, ma il cinese ha insistito". Così ha chiamato il padre, che ha gestito l'hotel per 20 anni e questi gli ha detto di venderlo, ma solo se il cliente avesse pagato in anticipo.
"Ero nervoso", continua Bernasconi, spiegando che temeva che il vecchio sughero del tappo potesse disintegrarsi. Invece tutto è andato bene, la bottiglia è stata aperta e il whisky è stato versato senza problemi.
Per quella cifra, sarà stata davvero un'esperienza unica gustare un whisky così antico. Sperando che il "profumato" aroma di quel liquore sia rimasto impresso nel palato del cinese per parecchio tempo.
Spero ne sia valsa davvero la pena. O che almeno bevendolo, il turista cinese abbia placato la sua sete e la sua curiosità. Al Devil's Bar dell'Hotel Waldhaus am See, a Sankt Moritz, un ragazzo asiatico ha sborsato 8733 euro, circa 9.999 franchi svizzeri, per bere un bicchierino (per complessivi 2 centilitri) del rarissimo Macallan millesime del 1878.
Il whisky di 139 anni era stato imbottigliato nel 1905, dopo essere rimasto in botte 27 anni. Il cliente si è detto soddisfatto, mentre il direttore dell'albergo che anch'egli lo ha assaggiato riporta:"Ha un sapore che ricorda il Cognac e richiama anche un po' il Porto".
Il giovane cinese è entrato nel bar e ha chiesto specificatamente di poter assaggiare il Macallan del 1878. Si tratta di una delle 2500 bottiglie da collezione che il bar ha in carta. Sandro Bernasconi, titolare del locale racconta al sito 20minuten la vicenda:"Ho spiegato al cliente che il Macallan più antico non era in vendita, ma il cinese ha insistito". Così ha chiamato il padre, che ha gestito l'hotel per 20 anni e questi gli ha detto di venderlo, ma solo se il cliente avesse pagato in anticipo.
"Ero nervoso", continua Bernasconi, spiegando che temeva che il vecchio sughero del tappo potesse disintegrarsi. Invece tutto è andato bene, la bottiglia è stata aperta e il whisky è stato versato senza problemi.
Per quella cifra, sarà stata davvero un'esperienza unica gustare un whisky così antico. Sperando che il "profumato" aroma di quel liquore sia rimasto impresso nel palato del cinese per parecchio tempo.
Il luogo più spaventoso d'Italia: il vecchio manicomio di Mombello
Si trova in provincia di Monza e della Brianza. È uno dei luoghi più terrificanti del nostro Paese, ma è luogo amatissimo da writer, tossici e fotografi.
Ci sono luoghi che incarnano alla lettera le nostre più recondite paure. Quei posti che sembrano essere usciti direttamente dalla scenografia di un film horror. Così è il vecchio manicomio di Mombello a Limbiate.
È decisamente un luogo che incute terrore, è uno dei luoghi più spaventosi d'Italia. Fino all'anno 1978, quando grazie all'attuazione della Legge Basaglia fu chiuso, questa struttura ospitava centinaia di pazienti. Vedendolo ora, pare arrivino ancora le urla delle persone, il grido d'aiuto di malati persi nei meandri della follia umana. Dai finestroni trapela ancora l'inquietudine dell'essere che dall'inizio del '900, avvolgeva un po' tutto. Ma era un luogo vivo, affollato, trafficato da persone, storie, odori e realtà controverse e tangibili. Ora è la sede elettiva di scrittori, tossici e fotografi.
La struttura sanitaria di Mombello fu costruita nel 1872, sono oltre 40 mila metri quadrati di stanze, celle e corridoi. Esse hanno ospitato anche il figlio illegittimo di Mussolini, Benito Albino, morto internato nel 1942. Il manicomio era separato dal comune da un muro di cinta alto due metri e lungo tre chilometri.
Oggi il manicomio di Mombello è un'attrazione turistica e funge da traino anche per le altre bellezze di Limbiate. Arrivati qui, infatti, sono degne di visita pure: Villa Pusteria Crivelli Arconati, sede attuale dell'Istituto Agrario "Luigi Castiglioni" ma che in passato ha ospitato il Re delle Due Sicilie, Ferdinando IV e Napoleone Bonaparte. E poi, c'è Villa Medolago Molinari, costruita tra il 1760 e il 1764, con la sua forma ad "U", tipica delle ville lombarde.
Inoltre per gli amanti di luoghi da brivido, è d'obbligo una visita all'ex PalaSharp di Lampugnano. In passato, tempio della musica e dello sport, è ora abbandonato da 5 anni, l'abbattimento è costantemente rinviato per gli alti costi. È stato rifugio di senzatetto, ma ormai è talmente pericolante da essere stato abbandonato anche da loro.
Facendo visita a questi due luoghi, avrete sicuramente esaurito il vostro tour dell'horror. Quindi non resterà che dedicarvi e disintossicarvi scoprendo le altre, infinite, bellezze di Monza e della Brianza. E il fornito patrimonio culinario.
Ci sono luoghi che fanno paura. Posti che ti chiamano e sembrano volerti afferrare con le voci dal passato. Il vecchio manicomio di Mombello è sicuramente uno di questi. Chissà se gli spiriti che alloggiano ancora in quelle stanze vogliono davvero comunicare qualcosa ai visitatori o chiedere semplicemente rispetto.
Ci sono luoghi che incarnano alla lettera le nostre più recondite paure. Quei posti che sembrano essere usciti direttamente dalla scenografia di un film horror. Così è il vecchio manicomio di Mombello a Limbiate.
È decisamente un luogo che incute terrore, è uno dei luoghi più spaventosi d'Italia. Fino all'anno 1978, quando grazie all'attuazione della Legge Basaglia fu chiuso, questa struttura ospitava centinaia di pazienti. Vedendolo ora, pare arrivino ancora le urla delle persone, il grido d'aiuto di malati persi nei meandri della follia umana. Dai finestroni trapela ancora l'inquietudine dell'essere che dall'inizio del '900, avvolgeva un po' tutto. Ma era un luogo vivo, affollato, trafficato da persone, storie, odori e realtà controverse e tangibili. Ora è la sede elettiva di scrittori, tossici e fotografi.
La struttura sanitaria di Mombello fu costruita nel 1872, sono oltre 40 mila metri quadrati di stanze, celle e corridoi. Esse hanno ospitato anche il figlio illegittimo di Mussolini, Benito Albino, morto internato nel 1942. Il manicomio era separato dal comune da un muro di cinta alto due metri e lungo tre chilometri.
Oggi il manicomio di Mombello è un'attrazione turistica e funge da traino anche per le altre bellezze di Limbiate. Arrivati qui, infatti, sono degne di visita pure: Villa Pusteria Crivelli Arconati, sede attuale dell'Istituto Agrario "Luigi Castiglioni" ma che in passato ha ospitato il Re delle Due Sicilie, Ferdinando IV e Napoleone Bonaparte. E poi, c'è Villa Medolago Molinari, costruita tra il 1760 e il 1764, con la sua forma ad "U", tipica delle ville lombarde.
Inoltre per gli amanti di luoghi da brivido, è d'obbligo una visita all'ex PalaSharp di Lampugnano. In passato, tempio della musica e dello sport, è ora abbandonato da 5 anni, l'abbattimento è costantemente rinviato per gli alti costi. È stato rifugio di senzatetto, ma ormai è talmente pericolante da essere stato abbandonato anche da loro.
Facendo visita a questi due luoghi, avrete sicuramente esaurito il vostro tour dell'horror. Quindi non resterà che dedicarvi e disintossicarvi scoprendo le altre, infinite, bellezze di Monza e della Brianza. E il fornito patrimonio culinario.
Ci sono luoghi che fanno paura. Posti che ti chiamano e sembrano volerti afferrare con le voci dal passato. Il vecchio manicomio di Mombello è sicuramente uno di questi. Chissà se gli spiriti che alloggiano ancora in quelle stanze vogliono davvero comunicare qualcosa ai visitatori o chiedere semplicemente rispetto.
giovedì 10 agosto 2017
Petit Pli, il vestito che cresce con il bambino
Una start-up inglese ha progettato un tessuto hi-tech che cresce insieme al bambino.
Così il giovane si è messo a lavoro e ha iniziato a condurre esperimenti, scoprendo che dopo aver piegato secondo uno schema particolare un tessuto sintetico (sul quale c'è ancora stretto riserbo) diventa possibile distenderlo e contrarlo a piacimento sia in lunghezza che in larghezza. Racconta che per dar vita al primo prototipo, ha cucito un paio di piccoli pantaloni, ha inserito il tessuto in un apposito stampo e ha poi fissato le pieghe riscaldando il tutto nel forno di casa. Il prototipo era perfetto! I pantaloni andavano bene sia al nipotino neonato che a quello che aveva ormai compiuto due anni.
Da quest'idea è nata poi Petit Pli: una marca d'abbigliamento che progetta vestiti utilizzabili da bambini dai 4 ai 36 mesi e che consente ai genitori di rispiarmare e di ridurre la quantità di rifiuti prodotti. Il giovane produttore spiega:"Penso che oggi i genitori e anche i bambini siano aperti a nuove possibilità. Vogliamo diffondere un messaggio: i vestiti usa e getta sono inutili, la chiave è la longevità!".
I vestiti di Petit Pli, in teoria, dovrebbero pure essere comodi, in quanto si adattano alla figura del bambino. È una tecnologia che aspetta però ancora di essere approvata e ci sarebbe bisogno di fondi per poterne avviare l'effettiva produzione.
Quella del vestito che cresce di pari passo al bambino, è quanto meno un'idea originale che può essere d'aiuto per attutire lo spreco che a volte, i genitori operano comprando miriadi di tutine agli appena arrivati. È pure vero che lo sfizio consiste proprio in questo.
- Quando si dice che i bambini crescono a vista d'occhio. Ryan Yasim l'ideatore di Petit Pli, racconta che nel tempo passato tra l'acquisto di un vestitino per il nipotino neonato e la prima occasione in cui ebbe modo di darglielo, quest'era già diventato troppo grande per indossarlo. Da questo aneddoto, Yasim studente del London's Royal College of Art, si decise a progettare un tessuto in grado di crescere assieme al bambino.
Così il giovane si è messo a lavoro e ha iniziato a condurre esperimenti, scoprendo che dopo aver piegato secondo uno schema particolare un tessuto sintetico (sul quale c'è ancora stretto riserbo) diventa possibile distenderlo e contrarlo a piacimento sia in lunghezza che in larghezza. Racconta che per dar vita al primo prototipo, ha cucito un paio di piccoli pantaloni, ha inserito il tessuto in un apposito stampo e ha poi fissato le pieghe riscaldando il tutto nel forno di casa. Il prototipo era perfetto! I pantaloni andavano bene sia al nipotino neonato che a quello che aveva ormai compiuto due anni.
Da quest'idea è nata poi Petit Pli: una marca d'abbigliamento che progetta vestiti utilizzabili da bambini dai 4 ai 36 mesi e che consente ai genitori di rispiarmare e di ridurre la quantità di rifiuti prodotti. Il giovane produttore spiega:"Penso che oggi i genitori e anche i bambini siano aperti a nuove possibilità. Vogliamo diffondere un messaggio: i vestiti usa e getta sono inutili, la chiave è la longevità!".
I vestiti di Petit Pli, in teoria, dovrebbero pure essere comodi, in quanto si adattano alla figura del bambino. È una tecnologia che aspetta però ancora di essere approvata e ci sarebbe bisogno di fondi per poterne avviare l'effettiva produzione.
Quella del vestito che cresce di pari passo al bambino, è quanto meno un'idea originale che può essere d'aiuto per attutire lo spreco che a volte, i genitori operano comprando miriadi di tutine agli appena arrivati. È pure vero che lo sfizio consiste proprio in questo.