Nello sfondo di un liceo di Varese. Verifiche finte e voti inventati per l'ex insegnante accusata di falso.
Di anomalie nelle Scuole Superiori se ne sono viste tante. Qualche anno fa, correva la moda del 6 politico, un'utopia democratica, che per lo meno, aveva valenze ideologiche. Oggi, in un liceo di Varese, si è davvero esagerato. In un paio di terze del Liceo Scientifico Galileo Ferraris, addirittura, era il 9 ad essere garantito in pagella a fine anno. A tutto, proprio tutti gli studenti, eccetto un allievo che si doveva accontentare dell'8 e mezzo e ancora non se ne sa la ragione.
Correva l'anno scolastico 2014-2015, e la professoressa L.P., insegnante precaria di Matematica e Fisica elargisce agli studenti voti oggettivamente alti, senza nemmeno interrogarli o di fare compiti in classe.
La professoressa giustificandosi davanti ad un genitore, poi al Preside, poi ai Carabinieri: "Io non ho bisogno di interrogare. La mia valutazione si basa sul livello di attenzione degli studenti. Su come si comportano e si applicano in classe. E poi non finito il programma". Sarà per questo che le è piombata addosso una denuncia per falso in atto pubblico che l'ha portata direttamente a processo a Varese.
Giuseppe Corcano, Preside dell'istituto, commenta: "Quando ci siamo accorti che la verifica finale del 23 Maggio 2015 non era stata fatta siamo stati costretti a intervenire. Sul registro aveva segnato 9 a tutti gli studenti meno che ad uno. Ma non c'erano compiti a supportare il voto. Una cosa troppo macroscopica".
È la prima volta che accade una cosa del genere bel rinomato istituto lombardo. Ci sono validissimi insegnanti per i 1.100 studenti. Quell'anno è capitata la professoressa mosca bianca. Sebbene il suo curriculum, del tutto normale, non facesse presagire a niente di simile. Laurea regolamentare, cattedre supplenti a Mantova, Sondrio, Gallarate e in Toscana.
Molto più sbalorditive sono le deposizioni dei suoi ex alunni. Uno ricorda: "Ogni tanto ci interrogava. Qualche volta ci faceva fare i compiti in classe. A cada mai e poi mai. Più spesso facevamo ricreazione". Un'altra dichiara: "Alla fine dell'anno ci ha detto che non poteva fare la verifica di classe perché non aveva completato il programma e così dava un bel voto a tutti e quindi non potevamo lamentarci".
Le "stranezze" a dir poco agghiaccianti non finiscono qua. La scuola prevede un registro elettronico con il programma dettagliato e la controfirma di due rappresentanti di classe. Invece, il programma non era mai stato completato e la prof. non si è mai presentata in aula per firmare. Ora rischia fino a 6 anni di carcere. Mentre la scuola ha cercato di venir incontro ai malcapitati studenti, fornendo dei corsi didattici di sostegno.
Ci sono dei lavori che dovrebbero essere considerati delle missioni, ossia essere fatti con passione prima di ogni altra cosa, prima di pensare di accaparrarsi solo lo stipendio. Inoltre, visto che si ha a che fare con delle giovani vite da formare, sarebbe meglio ritirarsi se si è inadeguati.
Notizie curiose, psicologia, cultura, arte ed attualità,articoli interessanti e mai pesanti.
venerdì 29 settembre 2017
I neuroni che spengono la fame
Una scoperta ha individuato dei neuroni che spengono la fame, rispondendo a certi cibi. Diete ad hoc per attivarli rapidamente.
La lotta al sovrappeso si arricchisce di un nuovo tassello. Gli studiosi suggeriscono una nuova arma per combattere l'appetito. Sono stati scoperti i neuroni che controllano in modo diretto l'appetito. Si chiamano taniciti e producono senso di sazietà quando avvertono la presenza di specifiche molecole, gli amminoacidi e in particolare due di esse, l'arginina e lisina, molto presenti in alcuni cibi.
La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Molecular Metabolism ed è il frutto del lavoro di ricerca degli scienziati dell'Università di Warwick, e si prospetta molto interessante nella lotta al sovrappeso.
Lo studio indica che preferendo alcuni cibi ricchi di arginina e lisina, come il merluzzo, albicocche, avocado, mandorle e lenticchie, solo per citarne alcuni, sì possa favorire più rapidamente il senso di sazietà. Magari, in futuro, le diete specifiche potrebbero essere sviluppate sulla base di questa nuova nozione.
Inoltre, si potrebbe utilizzare il principio di queste sostanze in alcuni farmaci per attivare dall'interno gli interruttori di sazietà presenti sui taniciti e quindi fermare la fame direttamente agendo su di essi.
I taniciti sono un gruppo di neuroni presenti nell'ipotalamo, la regione del cervello, già conosciuta agli scienziati e non, per essere la zona implicata nel controllo del peso, del metabolismo e dell'appetito.
La nuova scoperta riguarda l'aver individuato sulla superficie dei taniciti dei recettori specifici per gli amminoacidi, che non sono altro che i mattoncini di base delle proteine. Sono gli stessi recettori presenti sulla lingua, nelle pupille gustative, per sentire il gusto "umami", che è appunto il sapore caratteristico associato agli amminoacidi.
Lavorando sui taniciti resi fluorescenti per renderli visibili al microscopio, gli esperti hanno scoperto che, non appena sentono la presenza degli amminoacidi, soprattutto l'arginina e la lisina, i taniciti si attivano rilasciando un messaggio di sazietà all'ipotalamo.
Questa nuova constatazione fa ben sperare che preferendo cibi ricchi di arginina e lisina l'appetito si possa domare più agevolmente. E magari, in futuro, i taniciti potrebbero divenire i diretti bersagli di nuove terapie "spezza fame".
Dai neuroni taniciti, già ribattezzati i "neuroni spezza fame" arriva un altro ben accetto assist per la lotta al senso di fame che spesso accompagna i regimi dietetici.
La lotta al sovrappeso si arricchisce di un nuovo tassello. Gli studiosi suggeriscono una nuova arma per combattere l'appetito. Sono stati scoperti i neuroni che controllano in modo diretto l'appetito. Si chiamano taniciti e producono senso di sazietà quando avvertono la presenza di specifiche molecole, gli amminoacidi e in particolare due di esse, l'arginina e lisina, molto presenti in alcuni cibi.
La scoperta è stata pubblicata sulla rivista Molecular Metabolism ed è il frutto del lavoro di ricerca degli scienziati dell'Università di Warwick, e si prospetta molto interessante nella lotta al sovrappeso.
Lo studio indica che preferendo alcuni cibi ricchi di arginina e lisina, come il merluzzo, albicocche, avocado, mandorle e lenticchie, solo per citarne alcuni, sì possa favorire più rapidamente il senso di sazietà. Magari, in futuro, le diete specifiche potrebbero essere sviluppate sulla base di questa nuova nozione.
Inoltre, si potrebbe utilizzare il principio di queste sostanze in alcuni farmaci per attivare dall'interno gli interruttori di sazietà presenti sui taniciti e quindi fermare la fame direttamente agendo su di essi.
I taniciti sono un gruppo di neuroni presenti nell'ipotalamo, la regione del cervello, già conosciuta agli scienziati e non, per essere la zona implicata nel controllo del peso, del metabolismo e dell'appetito.
La nuova scoperta riguarda l'aver individuato sulla superficie dei taniciti dei recettori specifici per gli amminoacidi, che non sono altro che i mattoncini di base delle proteine. Sono gli stessi recettori presenti sulla lingua, nelle pupille gustative, per sentire il gusto "umami", che è appunto il sapore caratteristico associato agli amminoacidi.
Lavorando sui taniciti resi fluorescenti per renderli visibili al microscopio, gli esperti hanno scoperto che, non appena sentono la presenza degli amminoacidi, soprattutto l'arginina e la lisina, i taniciti si attivano rilasciando un messaggio di sazietà all'ipotalamo.
Questa nuova constatazione fa ben sperare che preferendo cibi ricchi di arginina e lisina l'appetito si possa domare più agevolmente. E magari, in futuro, i taniciti potrebbero divenire i diretti bersagli di nuove terapie "spezza fame".
Dai neuroni taniciti, già ribattezzati i "neuroni spezza fame" arriva un altro ben accetto assist per la lotta al senso di fame che spesso accompagna i regimi dietetici.
giovedì 28 settembre 2017
Tiberio, il molisano che scoprì la penicillina 35 anni prima di Fleming
Un italiano intuì il potere curativo delle muffe molti anni prima della penicillina di Fleming.
Nuovi documenti dimostrano che ad attuare quella vera rivoluzione per la medicina mondiale, ossia l'invenzione della penicillina, non fu, come tutti ritengono, nel 1929 il medico inglese Alexander Fleming, che scoprì casualmente il potere battericida del fungo Penicillum, mail merito andrebbe ad un medico militare della Regia Marina, originario del Molise.
Il maggiore medico Vincenzo Tiberio, 35 anni prima di Fleming aveva già acutamente osservato il potere antibiotico delle muffe, l'aveva studiato e sperimentato pubblicando i risultati su l'importante rivista scientifica. Purtroppo però, come altre volte è accaduto per i geni italiani, la sua scoperta rimase all'epoca del tutto ignorata. In effetti, ancor oggi il suo nome ai molti non dice nulla, eppure i suoi discendenti affermano che: "Esiste un documento che prova le sue ricerche. È ora che il mondo ne riconosca i meriti".
Il dottore era nato nel 1869 a Sepino, paesello in provincia di Campobasso. Iscrittosi alla Facoltà di Medicina presso l'Università di Napoli, andò ospite dallo zio ad Arzano in Campania. Nel cortile di questa casa vi era un pozzo dove veniva raccolta l'acqua piovana che era utilizzata per bere, dai contadini. A causa dell'umidità, la cisterna veniva spesso invasa da muffe verdastre, per questo veniva periodicamente ripulita.
Tiberio osservò che, stranamente, ad ogni ripulitura del pozzo, le persone che ne bevevano l'acqua si ammalavano di gastrite. Le stesse persone, invece, guarivano non appena la cisterna veniva nuovamente invasa dalle muffe.
Il giovane medico intuì che i due fenomeni dovevano essere connessi tra loro. Prelevo' alcuni campioni di muffa e scoprì che alcuni infomiceti (muffe) liberavano sostanze capaci d'inibire lo sviluppo di batteri, nonché di attivare la risposta chemiotattica (lo spostamento dei patogeni), nell'organismo infetto. Quindi procedette con la sperimentazione scientifica. Ottenendo dei risultati in vitro e l'osservazione su dei topi in laboratorio.
Soddisfatto del proprio operato, Tiberio cominciò la relazione sulla sua ricerca in facoltà, ma riscosse scarso interesse. Solo nel 1895, dopo la laurea, poté finalmente pubblicare negli "Annali di Igiene sperimentale", una delle più importanti riviste scientifiche dell'epoca, la sua ricerca in un saggio dal titolo "Sugli estratti di alcune muffe".
Purtroppo, anche dopo la pubblicazione la ricerca non ebbe un riscontro entusiasmante, per questo il giovane medico amareggiato e deluso abbandonò l'Università, partecipò al concorso per medico nel Corpo Sanitario Marittimo e lo vinse. Allontanandosi così, definitivamente, dalla carriera accademica.
Insomma, pur non riscuotendo gli stessi pareri positivi del suo antagonista Fleming, Tiberio molti anni prima e contro lo scetticismo di una scienza che ancora non era pronta, riuscì a scoprire l'effetto antibiotico delle muffe.
Capita a volte nella vita anche di ogni giorno, di perseguire la via giusta nel momento sbagliato. L'importante è percorrere sempre la propria strada.
Nuovi documenti dimostrano che ad attuare quella vera rivoluzione per la medicina mondiale, ossia l'invenzione della penicillina, non fu, come tutti ritengono, nel 1929 il medico inglese Alexander Fleming, che scoprì casualmente il potere battericida del fungo Penicillum, mail merito andrebbe ad un medico militare della Regia Marina, originario del Molise.
Il maggiore medico Vincenzo Tiberio, 35 anni prima di Fleming aveva già acutamente osservato il potere antibiotico delle muffe, l'aveva studiato e sperimentato pubblicando i risultati su l'importante rivista scientifica. Purtroppo però, come altre volte è accaduto per i geni italiani, la sua scoperta rimase all'epoca del tutto ignorata. In effetti, ancor oggi il suo nome ai molti non dice nulla, eppure i suoi discendenti affermano che: "Esiste un documento che prova le sue ricerche. È ora che il mondo ne riconosca i meriti".
Il dottore era nato nel 1869 a Sepino, paesello in provincia di Campobasso. Iscrittosi alla Facoltà di Medicina presso l'Università di Napoli, andò ospite dallo zio ad Arzano in Campania. Nel cortile di questa casa vi era un pozzo dove veniva raccolta l'acqua piovana che era utilizzata per bere, dai contadini. A causa dell'umidità, la cisterna veniva spesso invasa da muffe verdastre, per questo veniva periodicamente ripulita.
Tiberio osservò che, stranamente, ad ogni ripulitura del pozzo, le persone che ne bevevano l'acqua si ammalavano di gastrite. Le stesse persone, invece, guarivano non appena la cisterna veniva nuovamente invasa dalle muffe.
Il giovane medico intuì che i due fenomeni dovevano essere connessi tra loro. Prelevo' alcuni campioni di muffa e scoprì che alcuni infomiceti (muffe) liberavano sostanze capaci d'inibire lo sviluppo di batteri, nonché di attivare la risposta chemiotattica (lo spostamento dei patogeni), nell'organismo infetto. Quindi procedette con la sperimentazione scientifica. Ottenendo dei risultati in vitro e l'osservazione su dei topi in laboratorio.
Soddisfatto del proprio operato, Tiberio cominciò la relazione sulla sua ricerca in facoltà, ma riscosse scarso interesse. Solo nel 1895, dopo la laurea, poté finalmente pubblicare negli "Annali di Igiene sperimentale", una delle più importanti riviste scientifiche dell'epoca, la sua ricerca in un saggio dal titolo "Sugli estratti di alcune muffe".
Purtroppo, anche dopo la pubblicazione la ricerca non ebbe un riscontro entusiasmante, per questo il giovane medico amareggiato e deluso abbandonò l'Università, partecipò al concorso per medico nel Corpo Sanitario Marittimo e lo vinse. Allontanandosi così, definitivamente, dalla carriera accademica.
Insomma, pur non riscuotendo gli stessi pareri positivi del suo antagonista Fleming, Tiberio molti anni prima e contro lo scetticismo di una scienza che ancora non era pronta, riuscì a scoprire l'effetto antibiotico delle muffe.
Capita a volte nella vita anche di ogni giorno, di perseguire la via giusta nel momento sbagliato. L'importante è percorrere sempre la propria strada.
Divieto d'entrata per i formaggi in Cina
Pechino dichiara guerra al gorgonzola e taleggio, ma non solo, anche ad alcuni formaggi francesi. Attuati una serie di nodi regolamentari e nuovi parametri import.
A vederli non saranno proprio tra i più invitanti, ma in quanto a sapore non gli si può dir nulla. Eppure la Cina ha attuato lo stop all'import dei formaggi con le muffe. Gli italiani gorgonzola e taleggio, e i francesi camembert e roquefort, lì sono assolutamente vietati.
Wu Jing-Chum, vicedirettore Europa del Ministero del Commercio, in prossimità del settimo Congresso Slow Food International di fine mese a Chengdu, precisa: "Non c'è un problema politico ma di regolamenti".
La questione non sembra possa risolversi nell'immediato. I parametri sulle muffe sono molto bassi, risalenti al 2010 sono stati applicati in modo flessibile, quindi per far ripartire l'import sarà necessario ridefinirli.
I regolamenti rischiano di colpire oltre l'Italia e la Francia, anche la Gran Bretagna, Danimarca e Olanda. Per questo, l'Ue ha pensato ad un seminario sui formaggi con muffa da tenere al più presto, cercando di scendere in campo contro questa norma così restrittiva.
Wu il portavoce cinese, aggiunge ancora: "Il nostro Ministero non si occupa direttamente dell'importazione dei formaggi. Se ne occupa l'Aqsiq (Amministrazione su ispezioni e quarantena). Ci sono procedure interne. Ai cinesi piacciono i cibi italiani. Non c'è problema sui formaggi. Questo è soltanto un problema di procedura interna, non di politica. Il mercato cinese dà il benvenuto ai prodotti italiani. Il nostro Ministero dà il benvenuto ai formaggi italiani".
Un altro dossier scottante è l'import di pancetta, attualmente in fase iniziale per le importazioni. Anche in questo caso le cose vanno a rilento, si deve ancora siglare un memorandum per far partire il commercio. Wu continua a sottolineare che tra l'Italia ed il suo Paese c'è un ottimo scambio commerciale. Le relazioni economiche dei due Paesi sono cresciute del 20% nei primi sette mesi dell'anno, pari a circa 27 miliardi di dollari. Secondo quanto da lui riportato, la Cina avrebbe effettuato in Italia investimenti per 11 miliardi, mentre la nostra nazione ne avrebbe portato in essa 7 miliardi.
Si ribadisce che l'Italia è tra i Paesi di maggior attrazione degli investimenti cinesi, ma rimane il problema che alcuni nostri formaggi non li vogliono e che forse per loro è ancora troppo poco il denaro che gli italiani investono in Cina.
A vederli non saranno proprio tra i più invitanti, ma in quanto a sapore non gli si può dir nulla. Eppure la Cina ha attuato lo stop all'import dei formaggi con le muffe. Gli italiani gorgonzola e taleggio, e i francesi camembert e roquefort, lì sono assolutamente vietati.
Wu Jing-Chum, vicedirettore Europa del Ministero del Commercio, in prossimità del settimo Congresso Slow Food International di fine mese a Chengdu, precisa: "Non c'è un problema politico ma di regolamenti".
La questione non sembra possa risolversi nell'immediato. I parametri sulle muffe sono molto bassi, risalenti al 2010 sono stati applicati in modo flessibile, quindi per far ripartire l'import sarà necessario ridefinirli.
I regolamenti rischiano di colpire oltre l'Italia e la Francia, anche la Gran Bretagna, Danimarca e Olanda. Per questo, l'Ue ha pensato ad un seminario sui formaggi con muffa da tenere al più presto, cercando di scendere in campo contro questa norma così restrittiva.
Wu il portavoce cinese, aggiunge ancora: "Il nostro Ministero non si occupa direttamente dell'importazione dei formaggi. Se ne occupa l'Aqsiq (Amministrazione su ispezioni e quarantena). Ci sono procedure interne. Ai cinesi piacciono i cibi italiani. Non c'è problema sui formaggi. Questo è soltanto un problema di procedura interna, non di politica. Il mercato cinese dà il benvenuto ai prodotti italiani. Il nostro Ministero dà il benvenuto ai formaggi italiani".
Un altro dossier scottante è l'import di pancetta, attualmente in fase iniziale per le importazioni. Anche in questo caso le cose vanno a rilento, si deve ancora siglare un memorandum per far partire il commercio. Wu continua a sottolineare che tra l'Italia ed il suo Paese c'è un ottimo scambio commerciale. Le relazioni economiche dei due Paesi sono cresciute del 20% nei primi sette mesi dell'anno, pari a circa 27 miliardi di dollari. Secondo quanto da lui riportato, la Cina avrebbe effettuato in Italia investimenti per 11 miliardi, mentre la nostra nazione ne avrebbe portato in essa 7 miliardi.
Si ribadisce che l'Italia è tra i Paesi di maggior attrazione degli investimenti cinesi, ma rimane il problema che alcuni nostri formaggi non li vogliono e che forse per loro è ancora troppo poco il denaro che gli italiani investono in Cina.
mercoledì 27 settembre 2017
L'azione anti-obesità della frutta secca
Si a noci, mandorle e pistacchi, hanno effetto saziante, e nel pasto ottime al posto di proteine animali.
Chi nella vita, almeno una volta si è "messo a dieta", sa bene che il più grande scoglio da superare è la fame. Quel cattivo senzo "di vuoto" che ci sussurra continuamente di dover inserire altro cibo. Una mano a tutte queste povere anime perse nelle spirali del conteggio delle calorie, arriva da uno studio della Loma Linda University School of Public Health e dalla International Agency for Research on Cancer, di 35 ricercatori che l'hanno portato a termine, revisionato e pubblicato sulla rivista European Journal of Nutrition.
La ricerca mostra che si devono includere noci, insieme a mandorle, nocciole, pistacchi e persino noccioline, perché nella dieta riducono l'aumento di peso e diminuiscono anche il rischio di sovrappeso e obesità.
Si parte da basi scientifiche serie. Il team di ricerca ha analizzato le informazioni sulla dieta e sull'indice di massa corporea di 373.293 persone, tra i 25 e i 70 anni, reclutate tra il 1992 e il 2000 in 10 Paesi europei nell'ambito dello studio European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition. In media, i partecipanti allo studio hanno guadagnato nell'arco di 5 anni 2 kg e 100 grammi, ma rispetto a chi non consumava affatto noci, coloro che ne consumavano di più sono ingrassati meno.
I consumatori di noci, mandorle, nocciole, pistacchi e frutta secca in genere, avevano un rischio del 5% più basso di diventare sovrappeso o obesi.
Joan Sabati, il coordinatore dello studio, raccomanda di mangiarle più spesso, sottolineando che offrono energia, grassi buoni, proteine, vitamine e minerali. Il consiglio è metterle al centro del piatto durante i pasti per sostituire i prodotti animali.
Per chi come me, affonda le proprie radici in un paese montano, considera la frutta secca come un "amico" con cui attraversare l'inverno, o almeno questa è la considerazione che quelli più "anziani" ci avevano inculcato. Per esempio, la frutta secca è un ingrediente immancabile del post pranzo delle festività. E invece, è si un'ottima alleata, ma va mangiata nel durante o prima del pasto, in sostituzione di altri alimenti. D'altronde era impensabile che delle cose così buone potessero fare male.
Chi nella vita, almeno una volta si è "messo a dieta", sa bene che il più grande scoglio da superare è la fame. Quel cattivo senzo "di vuoto" che ci sussurra continuamente di dover inserire altro cibo. Una mano a tutte queste povere anime perse nelle spirali del conteggio delle calorie, arriva da uno studio della Loma Linda University School of Public Health e dalla International Agency for Research on Cancer, di 35 ricercatori che l'hanno portato a termine, revisionato e pubblicato sulla rivista European Journal of Nutrition.
La ricerca mostra che si devono includere noci, insieme a mandorle, nocciole, pistacchi e persino noccioline, perché nella dieta riducono l'aumento di peso e diminuiscono anche il rischio di sovrappeso e obesità.
Si parte da basi scientifiche serie. Il team di ricerca ha analizzato le informazioni sulla dieta e sull'indice di massa corporea di 373.293 persone, tra i 25 e i 70 anni, reclutate tra il 1992 e il 2000 in 10 Paesi europei nell'ambito dello studio European Prospective Investigation into Cancer and Nutrition. In media, i partecipanti allo studio hanno guadagnato nell'arco di 5 anni 2 kg e 100 grammi, ma rispetto a chi non consumava affatto noci, coloro che ne consumavano di più sono ingrassati meno.
I consumatori di noci, mandorle, nocciole, pistacchi e frutta secca in genere, avevano un rischio del 5% più basso di diventare sovrappeso o obesi.
Joan Sabati, il coordinatore dello studio, raccomanda di mangiarle più spesso, sottolineando che offrono energia, grassi buoni, proteine, vitamine e minerali. Il consiglio è metterle al centro del piatto durante i pasti per sostituire i prodotti animali.
Per chi come me, affonda le proprie radici in un paese montano, considera la frutta secca come un "amico" con cui attraversare l'inverno, o almeno questa è la considerazione che quelli più "anziani" ci avevano inculcato. Per esempio, la frutta secca è un ingrediente immancabile del post pranzo delle festività. E invece, è si un'ottima alleata, ma va mangiata nel durante o prima del pasto, in sostituzione di altri alimenti. D'altronde era impensabile che delle cose così buone potessero fare male.
Baci in dialetto
La Perugina punta sulla svolta "local", le famose frasi sui bigliettini saranno scritte nei vari idiomi, dal napoletano al romanesco, dal pugliese al veneto.
I baci non hanno una lingua, hanno tante lingue e dalle prossime confezioni parleranno in dialetto. In effetti, niente è più spontaneo e verace che esprimere le proprie emozioni nella lingua del proprio paese. Così le famose frasi romantiche che avvolgono i gustosi cioccolatini Baci Perugina si rifaranno ai modi di dire regionali.
In tutto sono 9 i dialetti scelti: da Nord a Sud, dalla Perugina per promuovere la prima edizione di "Parla come...Baci", una serie speciale per rendere omaggio all'Italia e alle sue differenti culture.
La selezione è stata dura, tra cento detti e proverbi di nove tra i più rappresentati dialetti italiani: pugliese, genovese, milanese, romano, veneto, siciliano, piemontese, napoletano e perugino. Ogni cartiglio contiene un proverbio in dialetto con la traduzione in italiano, mentre l'incarto del cioccolatino riporta la parola "bacio" nei dialetti scelti. Dal napoletano, ha avuto la meglio il detto: "Ogne scarrafone è bell' a mamme soia", mentre dal milanese è: "L'inamorae guarden minga a spend".
Il portavoce dell'azienda chiarisce: "I proverbi dialettali sono massime autorali che rispecchiano l'appartenenza o una cultura e a un luogo specifico ma il cui significato è universalmente riconosciuto poiché si rifà ai grandi temi che accomunano tutti: l'amore, l'amicizia, la famiglia, il lavoro e così via".
Questa svolta local della Perugina non è un caso. Uno studio di marketing commissionato dall'azienda ha svelato che tra i millenials la curiosità di scoprire i dialetti è molto forte, sia per il desiderio di creare un legame forte con la propria famiglia, che per la volontà di conoscere la storia di determinati termini ed espressioni o la possibilità di arricchire il proprio palato con espressioni colloquiali. Ed è così spiegato anche perché 6 giovani su 10 utilizzano il dialetto e sono incuriositi dall'impararlo.
È dal 1922, da quando la giovane Luisa Spagnoli creò dei dolcetti di nocciole, granella di nocciole e cioccolato fondente, che l'azienda Perugina prosegue sulla strada di intuizioni felici. La prima più importante, quando Giovanni Buitoni, titolare di bottega decise di cambiare il nome di questi cioccolatini da "cazzotti" a "Baci Perugina" e poi, come si suol dire il resto è storia...
Ormai i Baci fanno parte delle storie d'amore della stragrande maggioranza degli italiani. Non c'è un anniversario senza un Bacio...né un San Valentino o un dolce pensiero per la festa della donna, senza di esso, quindi, ancor meglio ora che si può dirlo anche in dialetto.
I baci non hanno una lingua, hanno tante lingue e dalle prossime confezioni parleranno in dialetto. In effetti, niente è più spontaneo e verace che esprimere le proprie emozioni nella lingua del proprio paese. Così le famose frasi romantiche che avvolgono i gustosi cioccolatini Baci Perugina si rifaranno ai modi di dire regionali.
In tutto sono 9 i dialetti scelti: da Nord a Sud, dalla Perugina per promuovere la prima edizione di "Parla come...Baci", una serie speciale per rendere omaggio all'Italia e alle sue differenti culture.
La selezione è stata dura, tra cento detti e proverbi di nove tra i più rappresentati dialetti italiani: pugliese, genovese, milanese, romano, veneto, siciliano, piemontese, napoletano e perugino. Ogni cartiglio contiene un proverbio in dialetto con la traduzione in italiano, mentre l'incarto del cioccolatino riporta la parola "bacio" nei dialetti scelti. Dal napoletano, ha avuto la meglio il detto: "Ogne scarrafone è bell' a mamme soia", mentre dal milanese è: "L'inamorae guarden minga a spend".
Il portavoce dell'azienda chiarisce: "I proverbi dialettali sono massime autorali che rispecchiano l'appartenenza o una cultura e a un luogo specifico ma il cui significato è universalmente riconosciuto poiché si rifà ai grandi temi che accomunano tutti: l'amore, l'amicizia, la famiglia, il lavoro e così via".
Questa svolta local della Perugina non è un caso. Uno studio di marketing commissionato dall'azienda ha svelato che tra i millenials la curiosità di scoprire i dialetti è molto forte, sia per il desiderio di creare un legame forte con la propria famiglia, che per la volontà di conoscere la storia di determinati termini ed espressioni o la possibilità di arricchire il proprio palato con espressioni colloquiali. Ed è così spiegato anche perché 6 giovani su 10 utilizzano il dialetto e sono incuriositi dall'impararlo.
È dal 1922, da quando la giovane Luisa Spagnoli creò dei dolcetti di nocciole, granella di nocciole e cioccolato fondente, che l'azienda Perugina prosegue sulla strada di intuizioni felici. La prima più importante, quando Giovanni Buitoni, titolare di bottega decise di cambiare il nome di questi cioccolatini da "cazzotti" a "Baci Perugina" e poi, come si suol dire il resto è storia...
Ormai i Baci fanno parte delle storie d'amore della stragrande maggioranza degli italiani. Non c'è un anniversario senza un Bacio...né un San Valentino o un dolce pensiero per la festa della donna, senza di esso, quindi, ancor meglio ora che si può dirlo anche in dialetto.
martedì 26 settembre 2017
L'insostenibile leggerezza del sushi
Nato secoli fa come una tecnica per conservare il pesce, è stato recentemente provato che la sua chimica è irresistibile per il palato.
È un alimento di fama planetaria. Tipico della cucina giapponese, il sushi ha conquistato mezzo mondo grazie alla sua combinazione perfetta di forma, colore e sapore e tutto questo avvalendosi di soli tre ingredienti: riso, pesce e alghe. Un successo indescrivibile, la cui ricetta è stata svelata nella chimica, che lo rende irresistibile per il palato. Lo spiega in in video la Società Americana di Chimica, che ripercorre anche tutte le tappe dell'origine del sushi.
Addirittura si deve risalire tra il 300 e il 400 a.C., quando si usava impacchettare il pesce in un involucro di riso per conservarlo meglio. Protetto dal riso, infatti, il pesce poteva sopportare meglio una fermentazione lunga, anche un anno, perché i "batteri buoni" trasformano i carboidrati del riso in acido lattico e questo, a sua volta, blocca l'avanzata di batteri pericolosi, come il botulino.
All'inizio il riso del sushi non veniva mangiato ma gettato via, probabilmente perché dopo tanto tempo era ormai troppo vecchio e acido al gusto. Ma a distanza di alcuni secoli il sapore un po' acidulo è diventato parte integrante del sushi, tanto che quell moderno viene insaporito con l'aceto.
Già nel XX secolo il successo del sushi era talmente acclamato da farlo diventare un popolare "street food", che si comprava mentre si andava a lavoro. Con l'arrivo dei frigoriferi la fermentazione non è stata più necessaria e il pesce ora si consuma generalmente crudo, ad eccezione di anguilla e polpo che vengono cotti.
Il riso, invece, che da alcuni chef viene anche cotto con aceto e zucchero, deve avere una cottura perfetta, facendo molta attenzione a non rompere i grani, che altrimenti libererebbero amido, come l'amilopectina che lo renderebbero colloso.
Poi, ci sono le alghe nelle quali il sushi viene avvolto, chiamate nori e Kombu. Esse contengono il glutammato, che dà il sapore unico dell'umami. Anche il pesce del sushi contiene glutammato, ma il suo sapore viene in gran parte dal suo grasso, soprattutto gli acidi grassi omega 3.
Ecco quindi svelato il segreto del successo del sushi. Come gran parte delle cose della vita, è tutta una questione di chimica, equilibri di vari fattori che si devono trovare e comporsi in un'armonia perfetta.
È un alimento di fama planetaria. Tipico della cucina giapponese, il sushi ha conquistato mezzo mondo grazie alla sua combinazione perfetta di forma, colore e sapore e tutto questo avvalendosi di soli tre ingredienti: riso, pesce e alghe. Un successo indescrivibile, la cui ricetta è stata svelata nella chimica, che lo rende irresistibile per il palato. Lo spiega in in video la Società Americana di Chimica, che ripercorre anche tutte le tappe dell'origine del sushi.
Addirittura si deve risalire tra il 300 e il 400 a.C., quando si usava impacchettare il pesce in un involucro di riso per conservarlo meglio. Protetto dal riso, infatti, il pesce poteva sopportare meglio una fermentazione lunga, anche un anno, perché i "batteri buoni" trasformano i carboidrati del riso in acido lattico e questo, a sua volta, blocca l'avanzata di batteri pericolosi, come il botulino.
All'inizio il riso del sushi non veniva mangiato ma gettato via, probabilmente perché dopo tanto tempo era ormai troppo vecchio e acido al gusto. Ma a distanza di alcuni secoli il sapore un po' acidulo è diventato parte integrante del sushi, tanto che quell moderno viene insaporito con l'aceto.
Già nel XX secolo il successo del sushi era talmente acclamato da farlo diventare un popolare "street food", che si comprava mentre si andava a lavoro. Con l'arrivo dei frigoriferi la fermentazione non è stata più necessaria e il pesce ora si consuma generalmente crudo, ad eccezione di anguilla e polpo che vengono cotti.
Il riso, invece, che da alcuni chef viene anche cotto con aceto e zucchero, deve avere una cottura perfetta, facendo molta attenzione a non rompere i grani, che altrimenti libererebbero amido, come l'amilopectina che lo renderebbero colloso.
Poi, ci sono le alghe nelle quali il sushi viene avvolto, chiamate nori e Kombu. Esse contengono il glutammato, che dà il sapore unico dell'umami. Anche il pesce del sushi contiene glutammato, ma il suo sapore viene in gran parte dal suo grasso, soprattutto gli acidi grassi omega 3.
Ecco quindi svelato il segreto del successo del sushi. Come gran parte delle cose della vita, è tutta una questione di chimica, equilibri di vari fattori che si devono trovare e comporsi in un'armonia perfetta.
Il lato oscuro di Winnie the Pooh
Il famoso orsacchiotto, protagonista di tante storie e cartoni animati, fu la causa della rottura tra l'ideatore e suo figlio.
Winnie the Pooh. Un mare di dolcezza e di buoni sentimenti di cui l'orsacchiotto più famoso al mondo ne è portabandiera. Tutti lo amano, i bambini lo adorano, i genitori, i nonni e i bisnonni ci hanno giocato quando erano piccoli. Eppure, proprio questo personaggio così osannato è stato la causa del rovinoso rapporto tra Alan Alexander Milne, il poeta, scrittore e giornalista che lo ha creato, e suo figlio Christopher Robin, che non ha mai perdonato al padre di averlo trasformato in un personaggio delle storie del Bosco dei Cento Acri.
Winnie the Pooh sarebbe la causa dell'infelicità familiare dei Milne. Questo è quanto rivela il film inglese: Goodbye Christopher, diretto da Simon Curtis e in uscita in questi giorni a Londra e dal 10 Novembre in Italia.
Il movie scova profondamente nel deteriorarsi del rapporto tra padre e figlio, cominciato in modo amorevole e idilliaco quando lo scrittore acquistò una casa nell'East Sussex, ai margini della foresta di Ashdown. La famiglia vi andava ogni weekend a bordo di una Fiat e vi trascorreva l'estate. Nella serafica atmosfera di Ashdown, ogni sera Milne raccontava al bambino storie basate sugli animali di pezza con i quali giocava: una mamma canguro, un asinello, una tigre, un maiale e un orsetto che inizialmente Christopher aveva battezzato Edward, ma chiamato Winnie dopo aver visto un cucciolo di orso canadese allo zoo di Londra al quale i bimbi avevano dato questo nome.
Mentre la foresta adiacente all'abitazione aveva dato l'idea del "Bosco dei Cento Acri", dove ambientare le avventure dell'orsacchiotto. Milne scrisse il primo racconto nel 1925 per l'Evening News e il primo libro nel 1926, utilizzando tutti i personaggi che il figlio aveva inventato per i suoi pupazzi e aggiungendone un altro: un bambino che aveva lo stesso nome di Christopher Robin. Nella storia di Winnie il bambino è molto allegro e disponibile, è il miglior amico di Pooh e vive in un albero in cima alla collina.
Da piccino, Christopher ancora non aveva il sentore di ciò che accadeva intorno a lui, non si rendeva conto dei problemi della sua famiglia. Lui veniva accudito da una nany, Milne era stato ferito nella Prima Guerra Mondiale, tornando in patria in uno stato di choc. Mentre, sua moglie Dorothy (Daphne) De Selincourt era stata traumatizzata dal parto perché come ogni signora dell'epoca non aveva una alcuna conoscenza della fisiologia del proprio corpi. Le storie di Winnie erano un'oasi di pace in un clima familiare molto teso e precario.
Solo crescendo Christopher ha compreso quanto la sua vita privata fosse finita nei racconti del padre. L'apparente armonia s'è spezzata, l'amore e la complicità sono diventati rancore e odio.
Il film riporta una frase del ragazzo che dice: "Vedremo se piacerà a papà che io scriva poesie su di lui". E nella vita reale disse anche di aver provato vergogna e di essersi morso le labbra perché suo padre aveva raccontato come lui pregava prima di andare a dormire.
Lo straordinario successo di Winnie ha stravolto entrambi. Milne padre è rimasto prigioniero di questo lavoro, facendo dimenticare gli altri suoi scritti; il figlio ha odiato il suo personaggio perché non ha più avuto pace, inseguito dagli ammiratori anche nella libreria che aveva aperto a Dartmounth e dove non si vendevano i libri di Winnie.
Ancora oggi, la Disney ricava da Winnie the Pooh un miliardo di dollari l'anno, più di Paperino, Topolino e Pippo messi insieme. Christopher Robin è scomparso nel 1966, ancora pieno di rancore per suo padre, come ha riportato Frank Cottrell Bayce, sceneggiatore del film, gli aveva impedito di crescere.
Il filo che divide le persone reali da i personaggi "di fantasia" inventati da uno scrittore è davvero sottile, e forse spesso, anche troppo tagliente. Quelli reali avrebbero senz'altro più diritto ad essere previamente informati del modo in cui vengono visti e poi caricaturati. Questo film parlando del lato oscuro del famoso personaggio getterà un po' di luce sugli equlibri reali non proprio idilliaci dei Milne.
Winnie the Pooh. Un mare di dolcezza e di buoni sentimenti di cui l'orsacchiotto più famoso al mondo ne è portabandiera. Tutti lo amano, i bambini lo adorano, i genitori, i nonni e i bisnonni ci hanno giocato quando erano piccoli. Eppure, proprio questo personaggio così osannato è stato la causa del rovinoso rapporto tra Alan Alexander Milne, il poeta, scrittore e giornalista che lo ha creato, e suo figlio Christopher Robin, che non ha mai perdonato al padre di averlo trasformato in un personaggio delle storie del Bosco dei Cento Acri.
Winnie the Pooh sarebbe la causa dell'infelicità familiare dei Milne. Questo è quanto rivela il film inglese: Goodbye Christopher, diretto da Simon Curtis e in uscita in questi giorni a Londra e dal 10 Novembre in Italia.
Il movie scova profondamente nel deteriorarsi del rapporto tra padre e figlio, cominciato in modo amorevole e idilliaco quando lo scrittore acquistò una casa nell'East Sussex, ai margini della foresta di Ashdown. La famiglia vi andava ogni weekend a bordo di una Fiat e vi trascorreva l'estate. Nella serafica atmosfera di Ashdown, ogni sera Milne raccontava al bambino storie basate sugli animali di pezza con i quali giocava: una mamma canguro, un asinello, una tigre, un maiale e un orsetto che inizialmente Christopher aveva battezzato Edward, ma chiamato Winnie dopo aver visto un cucciolo di orso canadese allo zoo di Londra al quale i bimbi avevano dato questo nome.
Mentre la foresta adiacente all'abitazione aveva dato l'idea del "Bosco dei Cento Acri", dove ambientare le avventure dell'orsacchiotto. Milne scrisse il primo racconto nel 1925 per l'Evening News e il primo libro nel 1926, utilizzando tutti i personaggi che il figlio aveva inventato per i suoi pupazzi e aggiungendone un altro: un bambino che aveva lo stesso nome di Christopher Robin. Nella storia di Winnie il bambino è molto allegro e disponibile, è il miglior amico di Pooh e vive in un albero in cima alla collina.
Da piccino, Christopher ancora non aveva il sentore di ciò che accadeva intorno a lui, non si rendeva conto dei problemi della sua famiglia. Lui veniva accudito da una nany, Milne era stato ferito nella Prima Guerra Mondiale, tornando in patria in uno stato di choc. Mentre, sua moglie Dorothy (Daphne) De Selincourt era stata traumatizzata dal parto perché come ogni signora dell'epoca non aveva una alcuna conoscenza della fisiologia del proprio corpi. Le storie di Winnie erano un'oasi di pace in un clima familiare molto teso e precario.
Solo crescendo Christopher ha compreso quanto la sua vita privata fosse finita nei racconti del padre. L'apparente armonia s'è spezzata, l'amore e la complicità sono diventati rancore e odio.
Il film riporta una frase del ragazzo che dice: "Vedremo se piacerà a papà che io scriva poesie su di lui". E nella vita reale disse anche di aver provato vergogna e di essersi morso le labbra perché suo padre aveva raccontato come lui pregava prima di andare a dormire.
Lo straordinario successo di Winnie ha stravolto entrambi. Milne padre è rimasto prigioniero di questo lavoro, facendo dimenticare gli altri suoi scritti; il figlio ha odiato il suo personaggio perché non ha più avuto pace, inseguito dagli ammiratori anche nella libreria che aveva aperto a Dartmounth e dove non si vendevano i libri di Winnie.
Ancora oggi, la Disney ricava da Winnie the Pooh un miliardo di dollari l'anno, più di Paperino, Topolino e Pippo messi insieme. Christopher Robin è scomparso nel 1966, ancora pieno di rancore per suo padre, come ha riportato Frank Cottrell Bayce, sceneggiatore del film, gli aveva impedito di crescere.
Il filo che divide le persone reali da i personaggi "di fantasia" inventati da uno scrittore è davvero sottile, e forse spesso, anche troppo tagliente. Quelli reali avrebbero senz'altro più diritto ad essere previamente informati del modo in cui vengono visti e poi caricaturati. Questo film parlando del lato oscuro del famoso personaggio getterà un po' di luce sugli equlibri reali non proprio idilliaci dei Milne.
lunedì 25 settembre 2017
L'azienda orafa Mattioli rinata come la fenice
Ora esporta in tutti i continenti, ma nel 2013 hanno dovuto vendere l'Antica Ditta alla Richemond. Uno spin-off che gli ha consentito di ripartire e crescere.
Solo quando una cosa ti appartiene veramente puoi parlarne con tanto ardore. Ed è questo che emerge dalle parole di Licia Mattioli, amministratrice delegata dall'azienda: "C'è un filo rosso che lega tutta la mia storia imprenditoriale ed è quello ce ha permesso di tenere insieme l'artigianalita' italiana con i processi produttivi tipici delle grandi aziende. In tutti questi anni ha funzionato. In passato siamo riusciti a reggere l'impatto della crisi e adesso abbiamo fatto un altro passo in avanti acquisendo la maggioranza di una ditta orafa di Valenza".
In effetti, solo grazie ad una grande passione, una ditta come la Mattioli Spa può continuare la sua storia dal 1995. Un percorso fatto anche di ripresa, perché in quattro anni, grazie ad una startup, è passata da 20 a 150 addetti, con un fatturato, che punta al fine 2017, ai 38 milioni di euro, di cui l'80% dall'export. Un risultato ottenuto sia dalla vendita dei gioielli con il loro marchio, sia dalla produzione per tutti i più grandi marchi del mondo.
Licia Mattioli aggiunge però che questi ottimi risultati sono dovuti alle due vite dell'azienda. La prima iniziata nel 1995 e conclusa nel 1999 dell'Antica Ditta Marchisio, una delle più prestigiose aziende orafe piemontesi che vantava lo storico puntp 1TO, il punto rilasciato a Torino, simbolo dell'identità e del titolo dell'oggetto venduto.
"Poi nel 2013 la mia famiglia decide di cedere l'Antica Ditta, al colosso svizzero del lusso Richemont. Con loro è stato stipulato un accordo che superasse il patto di non concorrenza e dallo spin-off ne è derivata la nuova società. È stato cambiato tutto. Nuovi forni, macchine e controllo numerico, stampanti laser e anche i banchi orafi".
Ora i prodotti dell'azienda vengono venduti nel Nord Europa, Usa, Giappone e Russia oltre i negozi monomarca a Roma, Gedda e Sapporo nel Paese nipponico.
La forza della Mattioli Spa è la ricerca del diverso. Loro producono gioielli non troppo classici, facendo molta ricerca, addirittura usando anche i bottoni dove altri avrebbero utilizzato la madreperla. Inoltre, oltre i pezzi unici ci sono quelli pret-a-porter, come gli orecchini a cui si possono cambiare i colori in funzione dello stato d'animo e dell'abbigliamento.
Quando nasce un'azienda ha spesso una strada già segnata. Quella della Mattioli Spa, ha saputo fare di ogni pietra incontrata sul percorso, una pietra preziosa da cui ripartire.
Solo quando una cosa ti appartiene veramente puoi parlarne con tanto ardore. Ed è questo che emerge dalle parole di Licia Mattioli, amministratrice delegata dall'azienda: "C'è un filo rosso che lega tutta la mia storia imprenditoriale ed è quello ce ha permesso di tenere insieme l'artigianalita' italiana con i processi produttivi tipici delle grandi aziende. In tutti questi anni ha funzionato. In passato siamo riusciti a reggere l'impatto della crisi e adesso abbiamo fatto un altro passo in avanti acquisendo la maggioranza di una ditta orafa di Valenza".
In effetti, solo grazie ad una grande passione, una ditta come la Mattioli Spa può continuare la sua storia dal 1995. Un percorso fatto anche di ripresa, perché in quattro anni, grazie ad una startup, è passata da 20 a 150 addetti, con un fatturato, che punta al fine 2017, ai 38 milioni di euro, di cui l'80% dall'export. Un risultato ottenuto sia dalla vendita dei gioielli con il loro marchio, sia dalla produzione per tutti i più grandi marchi del mondo.
Licia Mattioli aggiunge però che questi ottimi risultati sono dovuti alle due vite dell'azienda. La prima iniziata nel 1995 e conclusa nel 1999 dell'Antica Ditta Marchisio, una delle più prestigiose aziende orafe piemontesi che vantava lo storico puntp 1TO, il punto rilasciato a Torino, simbolo dell'identità e del titolo dell'oggetto venduto.
"Poi nel 2013 la mia famiglia decide di cedere l'Antica Ditta, al colosso svizzero del lusso Richemont. Con loro è stato stipulato un accordo che superasse il patto di non concorrenza e dallo spin-off ne è derivata la nuova società. È stato cambiato tutto. Nuovi forni, macchine e controllo numerico, stampanti laser e anche i banchi orafi".
Ora i prodotti dell'azienda vengono venduti nel Nord Europa, Usa, Giappone e Russia oltre i negozi monomarca a Roma, Gedda e Sapporo nel Paese nipponico.
La forza della Mattioli Spa è la ricerca del diverso. Loro producono gioielli non troppo classici, facendo molta ricerca, addirittura usando anche i bottoni dove altri avrebbero utilizzato la madreperla. Inoltre, oltre i pezzi unici ci sono quelli pret-a-porter, come gli orecchini a cui si possono cambiare i colori in funzione dello stato d'animo e dell'abbigliamento.
Quando nasce un'azienda ha spesso una strada già segnata. Quella della Mattioli Spa, ha saputo fare di ogni pietra incontrata sul percorso, una pietra preziosa da cui ripartire.
Lei lo salvò durante la Guerra: si sono "rivisti" dopo 74 anni
È una di quelle storie che fanno sorridere. Rosina, abbruzzese, e Len, inglese, quasi centenari si sono rivisti via Skype. Lui confessa:" non ho mai smesso di cercarti".
Sembra la trama di un film. Ambientato 74 anni fa a Sulmona nel cuore del remoto Abruzzo. Rosina all'epoca era una contadina di 21 anni, con due figli piccoli ed un marito in guerra e la speranza nel cuore che se fosse accaduto a lui, qualcuno avrebbe fatto lo stesso.
Agì con la speranza che qualcun'altro, in qualsiasi parte del mondo desse ospitalità ed ausilio ad un povero soldato disperso. Così lei fece con Len, soldato inglese. In realtà, già suo padre e suo zio ne accolsero almeno sette di essi. Purtroppo i tedeschi arrivarono alla casa sul monte dove li tenevano nascosti. Quattro cercarono di scappare e li presero subito. Len ed un altro, invece, riuscirono a farli salire in soffitta e li nascosero mettendo un armadio davanti alla porta perché non si vedesse il nascondiglio. Quando i tedeschi arrivarono nella camera trovarono Rosina a letto con i bambini.
La scaraventarono per terra, tremava come una foglia, ma non li trovarono. I tedeschi, non contenti, portarono via i due fratelli della donna, mandandoli ai lavori forzati.
Andati via i tedeschi, la giovane comunque tenne nascosto il soldato. Vicino alle bestie, ma comunque era pericoloso portargli da mangiare, per questo si facevano i turni. Sebbene, Rosina racconta oggi , che Len era molto più contento quando ci andava lei, che le sorrideva sempre sebbene pensasse che ella fosse molto più grande e anche per questo aveva quasi perso la speranza di trovarla.
Dopo, quando il soldato decise di incamminarsi verso le truppe alleate verso le montagne del Morrone, comunque non smisero di pensarsi.
passarono gli anni, la guerra, era stata dura, Rosina rimase in Italia fino al '59 per poi trasferirsi in America, qui ha perso però il primogenito, mentre ha avuto altre due figlie. Lei badava alla prole, il marito andava a lavoro. Comunque, alle figlie e alle nipoti ha sempre parlato del soldato conosciuto nel suo paesino e delle brutture della guerra.
Dall'altra parte dell'oceano, Len non ha mai smesso di cercarla. Nel 2009, venne anche a Sulmona, per cercarla sulla montagna dove lo avevano nascosto. Purtroppo però, la gente del luogo si era dimenticata di Rosina e la sua famiglia emigrata per tanto tempo. Sebbene fossero tornati nel '95 la gente non sapeva dare indicazioni. Len aveva quasi perso le speranze, poi una tv inglese lo ha contattato per raccontare le storie dei soldati scappati dall'Italia e lui ha subito parlato di questa "ragazza" che lo aveva aiutato. Le responsabili del programma sono venuti in Italia e sono state fortunate, perché hanno incontrato per caso un nipote di Rosina che fa la guardia forestale.
Da qui, il passo è stato breve. Subito li hanno fatti "rivedere" via Skype. Dopo solo 74 anni, Rosina Spinosa in Abruzzo e Len Harley a Billericay nell'Essex, si sono nuovamente parlati. L'ex soldato ha continuato a ringraziarla e a ribadire che lei ha rischiato la vita per lui. E che pensava che lei avesse ormai più di 100 anni quindi, quasi non ci sperava più. Ora si sono dati appuntamento per i prossimi giorni. Si sentiranno via Faceline, in attesa di vedersi di persona.
È una di quelle storie a lieto fine. Che fanno ben sperare. Perché, ci parlano di quei tipi di persone che oggi sembrano così lontane; della brava gente di campagna che disinteressatamente, mettendo a repentaglio anche la propria vita, ne aiuta un'altra; e poi quella di un ragazzo inglese che a chilometri di distanza non ha mai dimenticato la gratitudine nei loro confronti.
Sembra la trama di un film. Ambientato 74 anni fa a Sulmona nel cuore del remoto Abruzzo. Rosina all'epoca era una contadina di 21 anni, con due figli piccoli ed un marito in guerra e la speranza nel cuore che se fosse accaduto a lui, qualcuno avrebbe fatto lo stesso.
Agì con la speranza che qualcun'altro, in qualsiasi parte del mondo desse ospitalità ed ausilio ad un povero soldato disperso. Così lei fece con Len, soldato inglese. In realtà, già suo padre e suo zio ne accolsero almeno sette di essi. Purtroppo i tedeschi arrivarono alla casa sul monte dove li tenevano nascosti. Quattro cercarono di scappare e li presero subito. Len ed un altro, invece, riuscirono a farli salire in soffitta e li nascosero mettendo un armadio davanti alla porta perché non si vedesse il nascondiglio. Quando i tedeschi arrivarono nella camera trovarono Rosina a letto con i bambini.
La scaraventarono per terra, tremava come una foglia, ma non li trovarono. I tedeschi, non contenti, portarono via i due fratelli della donna, mandandoli ai lavori forzati.
Andati via i tedeschi, la giovane comunque tenne nascosto il soldato. Vicino alle bestie, ma comunque era pericoloso portargli da mangiare, per questo si facevano i turni. Sebbene, Rosina racconta oggi , che Len era molto più contento quando ci andava lei, che le sorrideva sempre sebbene pensasse che ella fosse molto più grande e anche per questo aveva quasi perso la speranza di trovarla.
Dopo, quando il soldato decise di incamminarsi verso le truppe alleate verso le montagne del Morrone, comunque non smisero di pensarsi.
passarono gli anni, la guerra, era stata dura, Rosina rimase in Italia fino al '59 per poi trasferirsi in America, qui ha perso però il primogenito, mentre ha avuto altre due figlie. Lei badava alla prole, il marito andava a lavoro. Comunque, alle figlie e alle nipoti ha sempre parlato del soldato conosciuto nel suo paesino e delle brutture della guerra.
Dall'altra parte dell'oceano, Len non ha mai smesso di cercarla. Nel 2009, venne anche a Sulmona, per cercarla sulla montagna dove lo avevano nascosto. Purtroppo però, la gente del luogo si era dimenticata di Rosina e la sua famiglia emigrata per tanto tempo. Sebbene fossero tornati nel '95 la gente non sapeva dare indicazioni. Len aveva quasi perso le speranze, poi una tv inglese lo ha contattato per raccontare le storie dei soldati scappati dall'Italia e lui ha subito parlato di questa "ragazza" che lo aveva aiutato. Le responsabili del programma sono venuti in Italia e sono state fortunate, perché hanno incontrato per caso un nipote di Rosina che fa la guardia forestale.
Da qui, il passo è stato breve. Subito li hanno fatti "rivedere" via Skype. Dopo solo 74 anni, Rosina Spinosa in Abruzzo e Len Harley a Billericay nell'Essex, si sono nuovamente parlati. L'ex soldato ha continuato a ringraziarla e a ribadire che lei ha rischiato la vita per lui. E che pensava che lei avesse ormai più di 100 anni quindi, quasi non ci sperava più. Ora si sono dati appuntamento per i prossimi giorni. Si sentiranno via Faceline, in attesa di vedersi di persona.
È una di quelle storie a lieto fine. Che fanno ben sperare. Perché, ci parlano di quei tipi di persone che oggi sembrano così lontane; della brava gente di campagna che disinteressatamente, mettendo a repentaglio anche la propria vita, ne aiuta un'altra; e poi quella di un ragazzo inglese che a chilometri di distanza non ha mai dimenticato la gratitudine nei loro confronti.
domenica 24 settembre 2017
Si sveglia dall'operazione e parla inglese
Mistero a Eboli. Risveglio dall'anestesia da brividi, la paziente ha cominciato a parlare inglese.
Sembra quasi una delle scene di quelle serie americane, stile Dr. House, invece, è un episodio realmente accaduto all'ospedale di Eboli, in provincia di Salerno. Una paziente si sveglia dopo una normale operazione al naso e inizia a parlare inglese.
La ragazza, ventisettenne, di Battipaglia e residente a Campagna, nel post anestesia ha risposto a tutte le domande in inglese, per 3 ore, senza che i medici riuscissero a capirla. Dopodiché, è tornata improvvisamente a parlare normalmente in italiano.
Il curioso fatto ha colto di sorpresa pure i dottori che pensavano si trattasse di uno scherzo. C'è voluto un po' di tempo prima che si rendessero conto che il problema si stava facendo serio e hanno immediatamente chiesto l'ausilio ed il parere di un neurologo. Lo specialista ha visitato la paziente, che continuava ad esprimersi in perfetto inglese, e ha formulato un'ipotesi, ma non ha dato nessuna certezza sulle motivazioni.
Il cambio linguistico della giovane paziente, rimane tutt'ora un mistero anche per i medici del reparto. D'altronde la ragazza in primis, quando le è stato raccontato l'accaduto, è rimasta stupita. L'unica cosa certa è che la giovane è iscritta all'università e nel tempo libero, essendo appassionata della lingua inglese dà ripetizioni ai ragazzi del suo quartiere.
Nella bibliografia dei casi "particolari" legati alla sala operatoria, risolto subito quello di Iga Jesica, nel 2015. Una bella ragazza di 19 anni di Varsavia, si è svegliata in sala operatoria durante un complesso intervento: la rimozione di un cancro al cervello. La giovane ha chiesto: "Come sta andando?" Perché l'effetto dell'anestesia era finito. I medici hanno continuato a parlare con lei durante tutto il delicato intervento. Gli esperti sostengno che l'operazione potrebbe aver innescato qualcosa che l'ha fatta risvegliare nonostante l'anestesia.
Quello che succede in sala durante un'operazione rimarrà sempre un mistero, ma il modo in cui può rispondere il cervello umano dopo un'anestesia o un'operazione chirurgica ancora di più.
Sembra quasi una delle scene di quelle serie americane, stile Dr. House, invece, è un episodio realmente accaduto all'ospedale di Eboli, in provincia di Salerno. Una paziente si sveglia dopo una normale operazione al naso e inizia a parlare inglese.
La ragazza, ventisettenne, di Battipaglia e residente a Campagna, nel post anestesia ha risposto a tutte le domande in inglese, per 3 ore, senza che i medici riuscissero a capirla. Dopodiché, è tornata improvvisamente a parlare normalmente in italiano.
Il curioso fatto ha colto di sorpresa pure i dottori che pensavano si trattasse di uno scherzo. C'è voluto un po' di tempo prima che si rendessero conto che il problema si stava facendo serio e hanno immediatamente chiesto l'ausilio ed il parere di un neurologo. Lo specialista ha visitato la paziente, che continuava ad esprimersi in perfetto inglese, e ha formulato un'ipotesi, ma non ha dato nessuna certezza sulle motivazioni.
Il cambio linguistico della giovane paziente, rimane tutt'ora un mistero anche per i medici del reparto. D'altronde la ragazza in primis, quando le è stato raccontato l'accaduto, è rimasta stupita. L'unica cosa certa è che la giovane è iscritta all'università e nel tempo libero, essendo appassionata della lingua inglese dà ripetizioni ai ragazzi del suo quartiere.
Nella bibliografia dei casi "particolari" legati alla sala operatoria, risolto subito quello di Iga Jesica, nel 2015. Una bella ragazza di 19 anni di Varsavia, si è svegliata in sala operatoria durante un complesso intervento: la rimozione di un cancro al cervello. La giovane ha chiesto: "Come sta andando?" Perché l'effetto dell'anestesia era finito. I medici hanno continuato a parlare con lei durante tutto il delicato intervento. Gli esperti sostengno che l'operazione potrebbe aver innescato qualcosa che l'ha fatta risvegliare nonostante l'anestesia.
Quello che succede in sala durante un'operazione rimarrà sempre un mistero, ma il modo in cui può rispondere il cervello umano dopo un'anestesia o un'operazione chirurgica ancora di più.
Il riso italiano più forte della siccità
"Il raccolto è nella media, sano e di ottima qualità".
Il panorama nelle risaie è lo stesso. Da pochi giorni è iniziato il raccolto e le mietitrebbie sono al lavoro per l'annata 2017. La produzione di riso si preannuncia nella media, sembrano essere scampate le conseguenze negative a cui le elevatissime temperature estive e la siccità facevano presagire.
Manrico Brustia, presidente di Cia Novara-Vercelli e Vco, riporta: "Chi ha seminato in anticipo, specie senza acqua è già a buon punto, ma si tratta di piccole aziende. Per il resto, si inizia a tagliare in questi giorni".
Una buona notizia da cui partire, il raccolto ci sarà e i campi di riso italiani, circa 230.800 ettari di superficie, dopo un calo dell'1,4% nel 2016, tornano comunque attivi e produttivi.
Se il raccolto è salvo, rimane l'incognita della resa alla lavorazione, ossia quanto riso bianco si riuscirà ad ottenere dalla lavorazione del risone.
Invece, l'agronomo Flavio Barozzi spiega: "Buone notizie per quanto riguarda qualità e quantità in campo. Possiamo confermare che si sono verificati pochi fenomeni di allettamento, mentre il controllo delle infestanti non appare uniforme, anche per la continua riduzione dei principi attivi disponibili. Poche e tardive le intrusioni di brusone. Sono nella media, non ci sono variazioni particolari rispetto agli altri anni. Per alcune varietà potrebbero però calare le rese all'ettaro".
Salve quindi un po' tutte le produzioni a partire da quella di Fabrizio Rizzotti di Vespolate, a Novara, che coltiva una varietà storica, il RAZZA77, recuperata nel 2016. Salve anche le produzioni in provincia di Pavia, dove Giovanni Doghetta, presidente della Cia Lombardia, dichiara che il riscontro ora che si è cominciato a tagliare, è addirittura superiore alle attese.
Nonostante le aspettative rosee per il raccolto, una nuova spada di Damocle pende sul mercato del riso. I prezzi sono ancora troppo bassi. Nonostante le produzioni dovrebbero rientrare nella media con rese soddisfacenti, le quotazioni rimangono tenui. Inoltre, la filiera si trova ad affrontare alcune novità di rilievo, per esempio, il 7 Dicembre prossimo, entrerà in vigore la nuova riforma del mercato interno del riso, aggiornando la normativa che risale al 1998.
Sugli scaffali i consumatori potranno trovare confezioni a cui è stata aggiunta l'indicazione "classico", quando sia presente una delle varietà tradizionali come il Carnaroli, a condizione che sia garantita la tracciabilità varietale.
Insomma, il riso è stato più forte del caldo e della siccità di questa spietata estate. Speriamo riesca ad essere più forte anche di tutte quelle normative CEE che vietano l'uso di tanti antiparassitari (alcuni anche naturali), per promuovere produzioni estere e soprattutto sia più forte di alcune normative nostrane che non valorizzano il prodotto.
Il panorama nelle risaie è lo stesso. Da pochi giorni è iniziato il raccolto e le mietitrebbie sono al lavoro per l'annata 2017. La produzione di riso si preannuncia nella media, sembrano essere scampate le conseguenze negative a cui le elevatissime temperature estive e la siccità facevano presagire.
Manrico Brustia, presidente di Cia Novara-Vercelli e Vco, riporta: "Chi ha seminato in anticipo, specie senza acqua è già a buon punto, ma si tratta di piccole aziende. Per il resto, si inizia a tagliare in questi giorni".
Una buona notizia da cui partire, il raccolto ci sarà e i campi di riso italiani, circa 230.800 ettari di superficie, dopo un calo dell'1,4% nel 2016, tornano comunque attivi e produttivi.
Se il raccolto è salvo, rimane l'incognita della resa alla lavorazione, ossia quanto riso bianco si riuscirà ad ottenere dalla lavorazione del risone.
Invece, l'agronomo Flavio Barozzi spiega: "Buone notizie per quanto riguarda qualità e quantità in campo. Possiamo confermare che si sono verificati pochi fenomeni di allettamento, mentre il controllo delle infestanti non appare uniforme, anche per la continua riduzione dei principi attivi disponibili. Poche e tardive le intrusioni di brusone. Sono nella media, non ci sono variazioni particolari rispetto agli altri anni. Per alcune varietà potrebbero però calare le rese all'ettaro".
Salve quindi un po' tutte le produzioni a partire da quella di Fabrizio Rizzotti di Vespolate, a Novara, che coltiva una varietà storica, il RAZZA77, recuperata nel 2016. Salve anche le produzioni in provincia di Pavia, dove Giovanni Doghetta, presidente della Cia Lombardia, dichiara che il riscontro ora che si è cominciato a tagliare, è addirittura superiore alle attese.
Nonostante le aspettative rosee per il raccolto, una nuova spada di Damocle pende sul mercato del riso. I prezzi sono ancora troppo bassi. Nonostante le produzioni dovrebbero rientrare nella media con rese soddisfacenti, le quotazioni rimangono tenui. Inoltre, la filiera si trova ad affrontare alcune novità di rilievo, per esempio, il 7 Dicembre prossimo, entrerà in vigore la nuova riforma del mercato interno del riso, aggiornando la normativa che risale al 1998.
Sugli scaffali i consumatori potranno trovare confezioni a cui è stata aggiunta l'indicazione "classico", quando sia presente una delle varietà tradizionali come il Carnaroli, a condizione che sia garantita la tracciabilità varietale.
Insomma, il riso è stato più forte del caldo e della siccità di questa spietata estate. Speriamo riesca ad essere più forte anche di tutte quelle normative CEE che vietano l'uso di tanti antiparassitari (alcuni anche naturali), per promuovere produzioni estere e soprattutto sia più forte di alcune normative nostrane che non valorizzano il prodotto.
sabato 23 settembre 2017
La principessa Qajar amata da più di cento uomini
La leggenda narra di questa principessa iraniana della dinastia Qajar che ebbe più di cento pretendenti e tredici di loro si suicidarono quando lei li rifiutò.
Il piacere è sicuramente il risultato di diverse componenti, di cui la bellezza, quella solitamente definita oggettiva, non per forza ne è la principale. O comunque, sarebbe più corretto asserire che alcune persone piacciono e basta. Questa potrebbe essere una delle spiegazioni per cui la principessa Anis-Al Daleh, una delle mogli preferite dello Shah di Persia Nasereddin della dinastia Qajar, sia stata in vita, particolarmente amata.
Nuove correnti di pensiero, indicano che la principessa in questione, quella particolarmente "affascinante", si chiamasse in realtà Zahra Khanam Tadjes- Saltaneh, considerata un'icona di bellezza sia per il suo aspetto, sia perché lottò con tutte le sue forze per i diritti delle donne.
Era talmente reputata come un simbolo di perfezione e bellezza che ben 145 uomini dell'alta nobiltà furono suoi pretendenti e tredici di loro addirittura, si tolsero la vita dopo essere stati rifiutati.
Per molti, la storia dei pretendenti e dell'indiscusso "fascino" della principessa, non è pienamente verificabile, tutto rimane avvolto da un alone di mistero e scetticismo. Di sicuro si sa che ebbe una vita abbastanza sorprendente.
Zahra Kihanam Tadjes-Saltaneh era una donna rivoluzionaria. Nacque nel 1883 ed appartiene alla dinastia Qajar, famiglia reale persiana, figla di Nassar Al-Din Shah, re di Persia dal 1848 fino al Maggio 1896.
Andò in sposa ad Amir Hussein Khan Shoja-Al Salthanah, ed ebbe quattro figli come era di norma fare tra le donne dell'epoca. Ma, dopo alcuni anni fece una cosa impensabile per quel periodo e per quella cultura: divorzio'. Divenne quindi la musa ispiratrice del famoso poeta persiano Aref Qazuin, che per lei compose la poesia "Eyte".
La principessa Zahra, si dedicò alla propaganda dei diritti delle donne e in prima linea combatté per essi. E nel 1891 fondò Anjoman Horriyyat Sevan, una società per la libertà femminile. Oltre che attivista, era pittrice, scrittrice ed intellettuale che organizzava settimanalmente a casa sua dei saloni letterari. Inoltre, fu tra le prime donne ad abbandonare lo hijab, tipico copricapo e indossare abiti occidentali.
Era una donna che stava sempre un passo avanti, venne considerata femminista e la sua figura è stata studiata da diversi ricercatori per capire l'impatto che è riuscita a generare.
Indubbiamente, Zahra piaceva. La sua figura ha colpito talmente la mentalità dell'epoca da far giungere sue notizie ai giorni nostri. Che sia stato per la bellezza fisica e per quella bellezza ottenuta dal mix di diverse caratteristiche, di certo ha insegnato che la cosa più importante è piacere a se stessi, per poi piacere ed essere d' insegnamento agli altri.
Il piacere è sicuramente il risultato di diverse componenti, di cui la bellezza, quella solitamente definita oggettiva, non per forza ne è la principale. O comunque, sarebbe più corretto asserire che alcune persone piacciono e basta. Questa potrebbe essere una delle spiegazioni per cui la principessa Anis-Al Daleh, una delle mogli preferite dello Shah di Persia Nasereddin della dinastia Qajar, sia stata in vita, particolarmente amata.
Nuove correnti di pensiero, indicano che la principessa in questione, quella particolarmente "affascinante", si chiamasse in realtà Zahra Khanam Tadjes- Saltaneh, considerata un'icona di bellezza sia per il suo aspetto, sia perché lottò con tutte le sue forze per i diritti delle donne.
Era talmente reputata come un simbolo di perfezione e bellezza che ben 145 uomini dell'alta nobiltà furono suoi pretendenti e tredici di loro addirittura, si tolsero la vita dopo essere stati rifiutati.
Per molti, la storia dei pretendenti e dell'indiscusso "fascino" della principessa, non è pienamente verificabile, tutto rimane avvolto da un alone di mistero e scetticismo. Di sicuro si sa che ebbe una vita abbastanza sorprendente.
Zahra Kihanam Tadjes-Saltaneh era una donna rivoluzionaria. Nacque nel 1883 ed appartiene alla dinastia Qajar, famiglia reale persiana, figla di Nassar Al-Din Shah, re di Persia dal 1848 fino al Maggio 1896.
Andò in sposa ad Amir Hussein Khan Shoja-Al Salthanah, ed ebbe quattro figli come era di norma fare tra le donne dell'epoca. Ma, dopo alcuni anni fece una cosa impensabile per quel periodo e per quella cultura: divorzio'. Divenne quindi la musa ispiratrice del famoso poeta persiano Aref Qazuin, che per lei compose la poesia "Eyte".
La principessa Zahra, si dedicò alla propaganda dei diritti delle donne e in prima linea combatté per essi. E nel 1891 fondò Anjoman Horriyyat Sevan, una società per la libertà femminile. Oltre che attivista, era pittrice, scrittrice ed intellettuale che organizzava settimanalmente a casa sua dei saloni letterari. Inoltre, fu tra le prime donne ad abbandonare lo hijab, tipico copricapo e indossare abiti occidentali.
Era una donna che stava sempre un passo avanti, venne considerata femminista e la sua figura è stata studiata da diversi ricercatori per capire l'impatto che è riuscita a generare.
Indubbiamente, Zahra piaceva. La sua figura ha colpito talmente la mentalità dell'epoca da far giungere sue notizie ai giorni nostri. Che sia stato per la bellezza fisica e per quella bellezza ottenuta dal mix di diverse caratteristiche, di certo ha insegnato che la cosa più importante è piacere a se stessi, per poi piacere ed essere d' insegnamento agli altri.
La "Biblioteca degli Alberi"
Si terrà domani, domenica 24, a Milano la semina collettiva al parco. Ognuno potrà portare il suo contributo per arricchire di verde la città.
Il sapere passa anche attraverso gli alberi. Ma, quella che verrà iniziata domani mattina, 24 Settembre, è davvero una biblioteca particolare. Non ci saranno libri né scaffali, né muri di costruzioni. È un parco, il terzo per estensione del centro cittadino. E saranno proprio i milanesi a seminarlo. Questa domenica chi vorrà, potrà partecipare alla "semina collettiva" dei prati della Biblioteca degli Alberi, particolare innovazione volta a modificare lo skyline della zona Porta Nuova.
L'idea è partita dalla Fondazione Riccardo Catella che ha invitato i milanesi alla semina collettiva dei prati del futuro parco incastonato tra il Bosco Verticale, la torre Unicredit e la famosa piazza dedicata a Gal Aulenti, l'architetto del Musee d'Orsay. L'ultima operazione urbanistica che ha trasformato una parte del centro di Milano in una zona da copertina.
Era da tempo che si pensava di far combaciare e creare uno spazio verde e fruibile ai cittadini, tra i grattacieli e la piazza. E così, da domani, prenderanno nuova vita nove ettari e mezzo di terreno, quattrocentocinquanta alberi di diciannove specie arboree differenti, trentaquattro mila e ottocento metri quadrati di prato e circa novanta mila tra siepi, arbusti, rampicanti, piante acquatiche e ornamentali progettati da Petra Blaisse e Piet Oudolf.
Domani si semineranno tremila e cinquecento metri del prato. Mentre a Novembre si procederà con le piante e gli alberi, per terminare entro l'Agosto del 2018.
Qualcuno già l'ha ribattezzato il "nuovo giardino botanico" di Milano, vista la biodiversità che coprirà i novantacinque mila metri quadrati: frassino, pioppo nero, carpino bianco, cipresso calvi, storace americano, ginko biloba, betulla dell'Himalaya, liriodendro, pino nero, pioppo bianco, cornido, bambù, piante aromatiche e arbusti, piante acquatiche e fiori selvatici.
Il nuovo parco creato dai milanesi, sarà un mosaico di stanze verdi. Una serie di percorsi da visitare, ognuno con la sua storia e la sua provenienza. Gli alberi saranno posizionati in una serie di cerchi, distribuiti in tutto il sito, chiamato: la Biblioteca degli Alberi. Ciascun albero è presentato in un cerchio aperto o concluso, ciascun cerchio è denominato e indicato con scritte tracciate sui vialetti che lo attraversano o costeggiano. Stanze vegetali abitabili, spazi a disposizione del pubblico.
I sentieri, i campi e le foreste circolari del parco formeranno uno spazio pubblico, in grado di ospitare pogrammi culturali, ricreativi, commerciali: da piazzale o teatri all'aperto fino ad aree di gioco e campi sportivi, da terrazze e giardini a salotti e zone per picnic, da mercati a gallerie d'arte, da sale per concerti a spazi per conferenze.
Quello che verrà seminato domani, sarà un parco creato dai cittadini e per i cittadini. I milanesi di oggi pianteranno le radici per il verde e la vivibilità dei milanesi di domani.
Il sapere passa anche attraverso gli alberi. Ma, quella che verrà iniziata domani mattina, 24 Settembre, è davvero una biblioteca particolare. Non ci saranno libri né scaffali, né muri di costruzioni. È un parco, il terzo per estensione del centro cittadino. E saranno proprio i milanesi a seminarlo. Questa domenica chi vorrà, potrà partecipare alla "semina collettiva" dei prati della Biblioteca degli Alberi, particolare innovazione volta a modificare lo skyline della zona Porta Nuova.
L'idea è partita dalla Fondazione Riccardo Catella che ha invitato i milanesi alla semina collettiva dei prati del futuro parco incastonato tra il Bosco Verticale, la torre Unicredit e la famosa piazza dedicata a Gal Aulenti, l'architetto del Musee d'Orsay. L'ultima operazione urbanistica che ha trasformato una parte del centro di Milano in una zona da copertina.
Era da tempo che si pensava di far combaciare e creare uno spazio verde e fruibile ai cittadini, tra i grattacieli e la piazza. E così, da domani, prenderanno nuova vita nove ettari e mezzo di terreno, quattrocentocinquanta alberi di diciannove specie arboree differenti, trentaquattro mila e ottocento metri quadrati di prato e circa novanta mila tra siepi, arbusti, rampicanti, piante acquatiche e ornamentali progettati da Petra Blaisse e Piet Oudolf.
Domani si semineranno tremila e cinquecento metri del prato. Mentre a Novembre si procederà con le piante e gli alberi, per terminare entro l'Agosto del 2018.
Qualcuno già l'ha ribattezzato il "nuovo giardino botanico" di Milano, vista la biodiversità che coprirà i novantacinque mila metri quadrati: frassino, pioppo nero, carpino bianco, cipresso calvi, storace americano, ginko biloba, betulla dell'Himalaya, liriodendro, pino nero, pioppo bianco, cornido, bambù, piante aromatiche e arbusti, piante acquatiche e fiori selvatici.
Il nuovo parco creato dai milanesi, sarà un mosaico di stanze verdi. Una serie di percorsi da visitare, ognuno con la sua storia e la sua provenienza. Gli alberi saranno posizionati in una serie di cerchi, distribuiti in tutto il sito, chiamato: la Biblioteca degli Alberi. Ciascun albero è presentato in un cerchio aperto o concluso, ciascun cerchio è denominato e indicato con scritte tracciate sui vialetti che lo attraversano o costeggiano. Stanze vegetali abitabili, spazi a disposizione del pubblico.
I sentieri, i campi e le foreste circolari del parco formeranno uno spazio pubblico, in grado di ospitare pogrammi culturali, ricreativi, commerciali: da piazzale o teatri all'aperto fino ad aree di gioco e campi sportivi, da terrazze e giardini a salotti e zone per picnic, da mercati a gallerie d'arte, da sale per concerti a spazi per conferenze.
Quello che verrà seminato domani, sarà un parco creato dai cittadini e per i cittadini. I milanesi di oggi pianteranno le radici per il verde e la vivibilità dei milanesi di domani.
venerdì 22 settembre 2017
Internet cambiato dall'intelligenza artificiale
Cambierà il modo in cui funziona internet. L'infrastruttura di rete si gestirà da sola, traendo ispirazione dalle auto a guida autonoma e sfruttando il machine learning.
Il futuro è già qui ed è gestito dall'intelligenza artificiale. Dai robot aspirapolvere che puliscono da soli la casa, agli assistenti virtuali capaci di organizzare al meglio i nostri impegni di lavoro, fino alle self driving cars, che fra qualche anno circoleranno nelle nostre città.
L'utilizzo dell'intelligenza artificiale si sta indirizzando verso la possibilità di rendere i nostri dispositivi tecnologici sempre più autonomi, in grado di capire da soli come portare a termine un compito. Sebbene, non sia da sottovalutare il fatto che mentre una buona parte dei dispositivi connessi alla rete impara a gestire da sola, l'elemento che sostiene questa trasformazione, l'infrastruttura di rete (router, hub, server ecc) è, per la maggior parte delle volte gestita manualmente dagli uomini.
Due importanti compagnie del settore Cisco e Juniper, si sono impegnate per far cambiare la situazione. La prima ha lanciato da pochi mesi il suo Intent-based Network, una nuova generazione di reti capaci di apprendere autonomamente il modo migliore di gestire il flusso di dati. La seconda ha invece ideato il Self Driving Network, che prendendo ispirazione dalle auto autonome punta a trasformare completamente il funzionamento delle reti.
Kireeti Kompella, Vicepresidente e Cto di Juniper spiega: "Il nostro obiettivo non è rendere autonoma qualche parte del network, ma fare in modo che sia in grado di gestirsi integralmente da solo". Parola davvero di esperta, se si tiene in considerazione che la multinazionale statunitense Juniper, ha circa 5 miliardi di dollari di fatturato e che annovera tra i suoi clienti le prime 10 compagnie telefoniche del mondo.
Secondo gli analisti ci vorranno circa 5 anni affinché questo sistema diventi effettivo e sia addirittura capace di difendersi da attacchi pirateschi. Rimangono gli ultimi due scogli: quello etico, se sia giusto o meno lanciare il self driving network e quello sociale e economico. Perché naturalmente tutta questa "innovazione e tecnologia" sottrae lavoro ai tecnici di rete.
Per ora la multinazionale suggerisce come risposta, di operare come nella Silicon Valley, dove si parla molto di reddito di cittadinanza come soluzione al problema della disoccupazione di massa.
Potrebbe essere una tampone, ma se l'intelligenza artificiale dovesse diventare così preminente anche nell'uso di Internet, alla fine toglierebbe alle persone anche uno dei passatempi più gettonati.
Il futuro è già qui ed è gestito dall'intelligenza artificiale. Dai robot aspirapolvere che puliscono da soli la casa, agli assistenti virtuali capaci di organizzare al meglio i nostri impegni di lavoro, fino alle self driving cars, che fra qualche anno circoleranno nelle nostre città.
L'utilizzo dell'intelligenza artificiale si sta indirizzando verso la possibilità di rendere i nostri dispositivi tecnologici sempre più autonomi, in grado di capire da soli come portare a termine un compito. Sebbene, non sia da sottovalutare il fatto che mentre una buona parte dei dispositivi connessi alla rete impara a gestire da sola, l'elemento che sostiene questa trasformazione, l'infrastruttura di rete (router, hub, server ecc) è, per la maggior parte delle volte gestita manualmente dagli uomini.
Due importanti compagnie del settore Cisco e Juniper, si sono impegnate per far cambiare la situazione. La prima ha lanciato da pochi mesi il suo Intent-based Network, una nuova generazione di reti capaci di apprendere autonomamente il modo migliore di gestire il flusso di dati. La seconda ha invece ideato il Self Driving Network, che prendendo ispirazione dalle auto autonome punta a trasformare completamente il funzionamento delle reti.
Kireeti Kompella, Vicepresidente e Cto di Juniper spiega: "Il nostro obiettivo non è rendere autonoma qualche parte del network, ma fare in modo che sia in grado di gestirsi integralmente da solo". Parola davvero di esperta, se si tiene in considerazione che la multinazionale statunitense Juniper, ha circa 5 miliardi di dollari di fatturato e che annovera tra i suoi clienti le prime 10 compagnie telefoniche del mondo.
Secondo gli analisti ci vorranno circa 5 anni affinché questo sistema diventi effettivo e sia addirittura capace di difendersi da attacchi pirateschi. Rimangono gli ultimi due scogli: quello etico, se sia giusto o meno lanciare il self driving network e quello sociale e economico. Perché naturalmente tutta questa "innovazione e tecnologia" sottrae lavoro ai tecnici di rete.
Per ora la multinazionale suggerisce come risposta, di operare come nella Silicon Valley, dove si parla molto di reddito di cittadinanza come soluzione al problema della disoccupazione di massa.
Potrebbe essere una tampone, ma se l'intelligenza artificiale dovesse diventare così preminente anche nell'uso di Internet, alla fine toglierebbe alle persone anche uno dei passatempi più gettonati.
Gli alberi Usa "si stanno spostando verso ovest"
Una ricerca rivela che le piante degli States orientali sono in cammino verso una nuova e inusuale direzione. "Si sono spostati di 15,4 chilometri in 10 anni".
Sarà che anche gli alberi, come una buona fetta della popolazione statunitense si stanno stancando della loro politica presidenziale, ma negli Usa, si sta assistendo ad un particolare fenomeno. Gli alberi si stanno spostando verso ovest. E lo fanno pure nella direzione sbagliata, perché secondo gli scienziati e i ricercatori, per lo meno, dovrebbero farlo verso i poli, in particolare al Nord, alla ricerca di temperature più familiari rispetto a quelle che il cambiamento climatico sta modificando.
Invece, gli ecologisti della Purdue University of West Lafayette, in Indiana, osservano che negli ultimi 30 anni, la migrazione degli alberi orientali sembra aver cambiato direzione. Per loro, la causa è dovuta al mutamento delle precipitazioni. Provocando la "migrazione" di alcune specie di piante della parte orientale degli Usa verso ovest.
Il professor Songlin Fei dichiara che sono 86 i tipi di albero in cammino. Dati confermati anche dall'osservazione del Servizio Forestale degli Stati Uniti nel periodo tra il 1980-1995 e 2013-2015. Si starebbero spostando le piante del Maine, Minnesota e Florida. Gli alberi rispondono ai cambiamenti del clima, alla disponibilità di acqua e alle variazioni della temperatura. Solo che invece di muoversi verso Nord, lontano dai tropici e dal suolo più caldo, come sempre ritenuto, prediligono le mete opposte.
Inoltre, questo processo sta avvenendo anche "più velocemente di quanto si possa pensare". Gli alberi che migrano verso il West si stanno spostando ad una velocità di 15,4 chilometri per decennio, mentre quelli in cammino verso Nord si sono spostati "solo" a 11 chilometri per decennio.
Altro motivo determinante per questa "inusuale migrazione", potrebbe essere l'interazione uomo-natura, a partire dal 1920 ci sono stati diversi insediamenti in quelle aree, poi c'è stato il diffondersi di parassiti e da non tralasciare sono gli incendi e le loro altre conseguenze negli anni, e tante altre concause che potrebbero aver influito sulla vita delle piante.
Sicuramente le foreste odierne hanno un aspetto diverso da quello degli ultimi decenni. Anche perché spesso, sono gli alberi "più giovani" a partire. Per i ricercatori, è come se le piante più giovani cominciano a nascere o migrare più verso ovest, spostando gradualmente i loro "centri abitati" a seconda delle condizioni migliori che possono trovare per crescere. Gli alberelli possono espandersi più facilmente in u a nuova regione mentre i più anziani muoiono.
Sebbene la concomitanza di fattori, la migrazione degli alberi non può essere pienamente attribuita al cambiamento climatico, anche se è stato osservato che gli alberi si adattano a questa circostanza "cercando l'umidità altrove".
Una volta, non c'era niente di più solido delle radici d'albero. Chissà se è vero progresso, quello che costringe anche gli alberi a migrare.
Sarà che anche gli alberi, come una buona fetta della popolazione statunitense si stanno stancando della loro politica presidenziale, ma negli Usa, si sta assistendo ad un particolare fenomeno. Gli alberi si stanno spostando verso ovest. E lo fanno pure nella direzione sbagliata, perché secondo gli scienziati e i ricercatori, per lo meno, dovrebbero farlo verso i poli, in particolare al Nord, alla ricerca di temperature più familiari rispetto a quelle che il cambiamento climatico sta modificando.
Invece, gli ecologisti della Purdue University of West Lafayette, in Indiana, osservano che negli ultimi 30 anni, la migrazione degli alberi orientali sembra aver cambiato direzione. Per loro, la causa è dovuta al mutamento delle precipitazioni. Provocando la "migrazione" di alcune specie di piante della parte orientale degli Usa verso ovest.
Il professor Songlin Fei dichiara che sono 86 i tipi di albero in cammino. Dati confermati anche dall'osservazione del Servizio Forestale degli Stati Uniti nel periodo tra il 1980-1995 e 2013-2015. Si starebbero spostando le piante del Maine, Minnesota e Florida. Gli alberi rispondono ai cambiamenti del clima, alla disponibilità di acqua e alle variazioni della temperatura. Solo che invece di muoversi verso Nord, lontano dai tropici e dal suolo più caldo, come sempre ritenuto, prediligono le mete opposte.
Inoltre, questo processo sta avvenendo anche "più velocemente di quanto si possa pensare". Gli alberi che migrano verso il West si stanno spostando ad una velocità di 15,4 chilometri per decennio, mentre quelli in cammino verso Nord si sono spostati "solo" a 11 chilometri per decennio.
Altro motivo determinante per questa "inusuale migrazione", potrebbe essere l'interazione uomo-natura, a partire dal 1920 ci sono stati diversi insediamenti in quelle aree, poi c'è stato il diffondersi di parassiti e da non tralasciare sono gli incendi e le loro altre conseguenze negli anni, e tante altre concause che potrebbero aver influito sulla vita delle piante.
Sicuramente le foreste odierne hanno un aspetto diverso da quello degli ultimi decenni. Anche perché spesso, sono gli alberi "più giovani" a partire. Per i ricercatori, è come se le piante più giovani cominciano a nascere o migrare più verso ovest, spostando gradualmente i loro "centri abitati" a seconda delle condizioni migliori che possono trovare per crescere. Gli alberelli possono espandersi più facilmente in u a nuova regione mentre i più anziani muoiono.
Sebbene la concomitanza di fattori, la migrazione degli alberi non può essere pienamente attribuita al cambiamento climatico, anche se è stato osservato che gli alberi si adattano a questa circostanza "cercando l'umidità altrove".
Una volta, non c'era niente di più solido delle radici d'albero. Chissà se è vero progresso, quello che costringe anche gli alberi a migrare.
giovedì 21 settembre 2017
Per essere più produttivi? Basta stare meno tempo in ufficio
Meno ore lavorative non corrispondono a minore produttività, anzi stimola l'efficienza e la forza creativa, veri motori dell'innovazione.
Lavorare meno e produrre di più, potrebbe quasi sembrare la provocatoria locandina di qualche sindacalista, invece è proprio così. Lo afferma in un libro Alex Soojumg-Kim Pang studioso della Stanford University e consulente della Silicon Valley.
Ma il riposo, per essere produttivo, deve essere anche attivo: camminare, fare sport o coltivare hobby. Questi e altri suggerimenti l'autore presenta nel suo manoscritto: "Rest: Why You Get More Done When You Work Less? Il ricercatore è proprio partito dalla questione su chi ha detto che la produttività di una persona, di un'azienda o di un settore industriale, siano direttamente proporzionate al numero di ore che vengono dedicate al lavoro in ufficio, in fabbrica o in qualsiasi altro luogo, perfino a casa?
Lo scopo era proprio quello di dimostrare che lavorare meno ore non diminuisca il rendimento, ma addirittura, stimoli l'efficienza e la forza creativa, veri motori dell'innovazione.
Alex Soojung-Kim Pang spiega: "A meno che non stiamo facendo un'attività che implica di seguire alla lettera una serie di istruzioni che sono state scritte per noi, è probabile che il nostro lavoro avrà a che fare con eccezioni e problemi che richiederanno una certa dose di ingegno. Ed è proprio nei momenti di riposo che si è più creativi e si da fondo alle proprie scorte di ingegno".
Il ricercatore è partito proprio dalle sue osservazioni alla Silicon Valley. L'imperativo era sfruttare al massimo le ore a disposizione, lavorare più duramente. Poi, ha dovuto far i conti con i primi sintomi di stress eccessivo che lo spinsero a prendere un periodo sabbatico. Sorprendentemente, continuò a lavorare e ragionare sul lavoro che lo attendeva al suo ritorno. "Allo stesso tempo ho avuto quella che è una vita meravigliosamente libera". Da qui è scaturita la fatidica domanda: lavorare meno può avere effetti positivi sull'efficienza, sulla creatività e sull'innovazione?
Inoltre, è stato verificato che non è importante il tipo di lavoro che si attua, comunque lavorare troppo avrà effetti negativi sulla nostra produttività. E ne soffrono tutte le persone non solo le più creative.
Il suggerimento, infine, è quello di dedicare più spazio al tempo libero, ma non all'ozio. Come suggerivano gli antichi Greci e non certo giocando ai videogiochi. Perché, come sosteneva anche Picasso: "L'ispirazione esiste, ma ti deve trovare al lavoro". Qui di si dovrebbe liberare la mente dagli schemi precisi e rigorosi del lavoro, dedicando un po' più tempo per se stessi, per i propri interessi e per tutto ciò che non è lavoro.
A volte staccare la spina, è come quando in una stanza chiusa apriamo la finestra e facciamo entrare aria nuova. L'effetto è rigenerativo lo stesso vale per la mente, bisogna farla uscire ogni tanto dalle costrizioni del lavoro.
Lavorare meno e produrre di più, potrebbe quasi sembrare la provocatoria locandina di qualche sindacalista, invece è proprio così. Lo afferma in un libro Alex Soojumg-Kim Pang studioso della Stanford University e consulente della Silicon Valley.
Ma il riposo, per essere produttivo, deve essere anche attivo: camminare, fare sport o coltivare hobby. Questi e altri suggerimenti l'autore presenta nel suo manoscritto: "Rest: Why You Get More Done When You Work Less? Il ricercatore è proprio partito dalla questione su chi ha detto che la produttività di una persona, di un'azienda o di un settore industriale, siano direttamente proporzionate al numero di ore che vengono dedicate al lavoro in ufficio, in fabbrica o in qualsiasi altro luogo, perfino a casa?
Lo scopo era proprio quello di dimostrare che lavorare meno ore non diminuisca il rendimento, ma addirittura, stimoli l'efficienza e la forza creativa, veri motori dell'innovazione.
Alex Soojung-Kim Pang spiega: "A meno che non stiamo facendo un'attività che implica di seguire alla lettera una serie di istruzioni che sono state scritte per noi, è probabile che il nostro lavoro avrà a che fare con eccezioni e problemi che richiederanno una certa dose di ingegno. Ed è proprio nei momenti di riposo che si è più creativi e si da fondo alle proprie scorte di ingegno".
Il ricercatore è partito proprio dalle sue osservazioni alla Silicon Valley. L'imperativo era sfruttare al massimo le ore a disposizione, lavorare più duramente. Poi, ha dovuto far i conti con i primi sintomi di stress eccessivo che lo spinsero a prendere un periodo sabbatico. Sorprendentemente, continuò a lavorare e ragionare sul lavoro che lo attendeva al suo ritorno. "Allo stesso tempo ho avuto quella che è una vita meravigliosamente libera". Da qui è scaturita la fatidica domanda: lavorare meno può avere effetti positivi sull'efficienza, sulla creatività e sull'innovazione?
Inoltre, è stato verificato che non è importante il tipo di lavoro che si attua, comunque lavorare troppo avrà effetti negativi sulla nostra produttività. E ne soffrono tutte le persone non solo le più creative.
Il suggerimento, infine, è quello di dedicare più spazio al tempo libero, ma non all'ozio. Come suggerivano gli antichi Greci e non certo giocando ai videogiochi. Perché, come sosteneva anche Picasso: "L'ispirazione esiste, ma ti deve trovare al lavoro". Qui di si dovrebbe liberare la mente dagli schemi precisi e rigorosi del lavoro, dedicando un po' più tempo per se stessi, per i propri interessi e per tutto ciò che non è lavoro.
A volte staccare la spina, è come quando in una stanza chiusa apriamo la finestra e facciamo entrare aria nuova. L'effetto è rigenerativo lo stesso vale per la mente, bisogna farla uscire ogni tanto dalle costrizioni del lavoro.
I chili in più sono influenzati dall'orologio biologico e dalla melatonina
In più, si diventa più grassi se si va a dormire subito dopo aver mangiato.
Andare a letto subito dopo aver mangiato non è un'abitudine molto positiva per la propria salute. È cosa risaputa, ma ora è stato trovato un legame molto più forte del previsto tra il nostro orologio biologico, ossia, il momento per cui per il nostro corpo è giunta l'ora di andare a dormire (anche se non è notte), la melatonina e la quantità di chili che diventano grasso corporeo.
Lo hanno appurato i ricercatori del Brigham Women's Hospital di Boston, il cui studio è pubblicato sull'American Journal of Clinical Nutrition.
Avvalendosi di un'app sono stati analizzati i dati di 110 adulti tra i 18 e i 22 anni, sui loro ritmi di sonno veglia, e il consumo di cibo per sette giorni di seguito. È stato riscontrato che se non si vuole ingrassare, bisogna far passare qualche ora dal pasto prima di andare a dormire, in modo da dare al corpo il tempo di digerire.
La controprova è stata fornita dalle maggiori percentuali di grasso presenti nelle persone che ingerivano la maggior parte delle calorie poco prima di andare a dormire, praticamente quando i livelli di melatonina (l'ormone prodotto dall'organismo, con la funzione di regolare il sonno e la veglia e annunciare l'inizio della "notte biologica"), erano più alti.
Al contrario, chi invece aspettava qualche ora dopo la fine del pasto, per dormire, aveva meno grasso.
Il fattore determinante è quindi il momento del consumo di cibo rispetto alla produzione di melatonina nel corpo. Il metabolismo umano è influenzato dal ritmo cicardiano, che varia da persona a persona, magari per turni di lavoro irregolari o semplicemente perché c'è chi preferisce alzarsi presto e di stare sveglio fino a tardi.
Andrew McHill, coordinatore dello studio precisa:"C'è un legame tra l'ora in cui si mangia, la produzione di melatonina in quel momento e una maggiore quantità di grasso e indice di massa corporea, mentre non c'è collegamento con il momento della giornata in cui si mangia, la quantità e composizione del pasto".
La saggezza popolare ha ragione, andare subito a dormire dopo aver consumato un pasto fa male. Mentre, chissà se è davvero così scientificamente esatto affermare che la quantità e la composizione del pasto non influisca poi sul peso.
Andare a letto subito dopo aver mangiato non è un'abitudine molto positiva per la propria salute. È cosa risaputa, ma ora è stato trovato un legame molto più forte del previsto tra il nostro orologio biologico, ossia, il momento per cui per il nostro corpo è giunta l'ora di andare a dormire (anche se non è notte), la melatonina e la quantità di chili che diventano grasso corporeo.
Lo hanno appurato i ricercatori del Brigham Women's Hospital di Boston, il cui studio è pubblicato sull'American Journal of Clinical Nutrition.
Avvalendosi di un'app sono stati analizzati i dati di 110 adulti tra i 18 e i 22 anni, sui loro ritmi di sonno veglia, e il consumo di cibo per sette giorni di seguito. È stato riscontrato che se non si vuole ingrassare, bisogna far passare qualche ora dal pasto prima di andare a dormire, in modo da dare al corpo il tempo di digerire.
La controprova è stata fornita dalle maggiori percentuali di grasso presenti nelle persone che ingerivano la maggior parte delle calorie poco prima di andare a dormire, praticamente quando i livelli di melatonina (l'ormone prodotto dall'organismo, con la funzione di regolare il sonno e la veglia e annunciare l'inizio della "notte biologica"), erano più alti.
Al contrario, chi invece aspettava qualche ora dopo la fine del pasto, per dormire, aveva meno grasso.
Il fattore determinante è quindi il momento del consumo di cibo rispetto alla produzione di melatonina nel corpo. Il metabolismo umano è influenzato dal ritmo cicardiano, che varia da persona a persona, magari per turni di lavoro irregolari o semplicemente perché c'è chi preferisce alzarsi presto e di stare sveglio fino a tardi.
Andrew McHill, coordinatore dello studio precisa:"C'è un legame tra l'ora in cui si mangia, la produzione di melatonina in quel momento e una maggiore quantità di grasso e indice di massa corporea, mentre non c'è collegamento con il momento della giornata in cui si mangia, la quantità e composizione del pasto".
La saggezza popolare ha ragione, andare subito a dormire dopo aver consumato un pasto fa male. Mentre, chissà se è davvero così scientificamente esatto affermare che la quantità e la composizione del pasto non influisca poi sul peso.
mercoledì 20 settembre 2017
Già nel Neolitico erano le donne la chiave della conoscenza
Primitive per modo di dire. Uno studio rivela che alla fine dell' Età della Pietra erano le donne a spostarsi diffondendo saperi e tecnologie.
Se mai qualcuno si fosse immaginato le femmine primitive rilegate in qualche caverna a sorvegliare la prole, ha sbagliato proprio stereotipo. Al contrario di quanto si potesse pensare, nel Neolitico erano le donne le vere viaggiatrici.
Lasciavano la propria abitazione spostandosi per centinaia di chilometri diffondendo cultura e conoscenza. Questa è la sorprendente scoperta cui si è giunti analizzando i resti di persone vissute alla fine dell'Età della Pietra nella zona di Lecthal (Germania) e sepolte tra il 2500 e il 1650 a.C. Ne esce un nuovo quadro che mostra l'importante ruolo sociale delle nostre antenate, si spostavano più dei maschi, erano portatrici di cultura e furono fondamentali per lo scambio di informazioni tecnologiche e saperi.
Lo studio è stato condotto dal Max Planck Institute di Jena e dall'Istituto di Preistoria e Archeologia di Monaco pubblicato su Pnas. Aggiungendo l'usanza degli uomini che tendevano a continuare a vivere nel paese dove erano nati, mentre parte delle donne venivano da altre zone, fatto che ne sottolinea la costante mobilità.
Per la ricerca sono stati analizzati i resti di 84 individui sepolti in fosse nella valle di Lech. La regola vede che i siti di sepoltura ospitavano un'unica famiglia: questo piteva significare anche generazioni differenti sepolte nello stesso luogo. Dalle analisi del Dna e quelle degli isotopi dello stronzio nei denti i ricercatori hanno notato una diversità genetica nella linea ereditaria femminile, fatto che indica come molte donne migravano da altre aree. Anche se "migranti" e provenienti da altre realtà, le donne furono però integrate nelle nuove famiglie e sepolte con i componenti della popolazione nativa.
In più, in questa società di tipo patriarcale, dove le famiglie si stabilivano nelle zone di residenza dell'uomo, per gli studiosi la mobilità femminile durò almeno 800 anni. Le donne contribuirono così a trasmettere conoscenze, come quelle sulla lavorazione dei metalli, scambiare informazioni su utensili, tecnologia, usi e costumi.
L'archeologo Philipp Stockhammer spiega: "Tutti noi conosciamo storie di uomini guerrieri e cacciatori che combattono e tornano con il cibo mentre le donne e i bambini restano a casa, ma sembra che le cose fossero decisamente diverse. Il nostro studio suggerisce invece che quasi nessuno degli uomini aveva viaggiato, mentre due terzi delle donne li facevano. Da quel che abbiamo dedotto lo scopo della mobilità femminile era la ricerca di un marito. Non ci sono prove di "forzatura" da parte delle loro famiglie d'origine: le donne straniere non mostrano segni di differenza nelle loro sepolture rispetto a quelle locali. Sembrano avere lo stesso status".
Le donne potevano spostarsi anche cinquecento chilometri lontano dai loro villaggi e dove andavano portavano idee e nuove usanze.
Più passa il tempo e più mi rendo conto che alcuni stereotipi sono infondati e semplicemente tali sono destinati a rimanere. In fondo, in fondo, che le fonne fossero sempre state veicolo di cultura e conoscenza, forse non ce lo dovevano dire le nostre antenate nord europee del Neolitico.
Se mai qualcuno si fosse immaginato le femmine primitive rilegate in qualche caverna a sorvegliare la prole, ha sbagliato proprio stereotipo. Al contrario di quanto si potesse pensare, nel Neolitico erano le donne le vere viaggiatrici.
Lasciavano la propria abitazione spostandosi per centinaia di chilometri diffondendo cultura e conoscenza. Questa è la sorprendente scoperta cui si è giunti analizzando i resti di persone vissute alla fine dell'Età della Pietra nella zona di Lecthal (Germania) e sepolte tra il 2500 e il 1650 a.C. Ne esce un nuovo quadro che mostra l'importante ruolo sociale delle nostre antenate, si spostavano più dei maschi, erano portatrici di cultura e furono fondamentali per lo scambio di informazioni tecnologiche e saperi.
Lo studio è stato condotto dal Max Planck Institute di Jena e dall'Istituto di Preistoria e Archeologia di Monaco pubblicato su Pnas. Aggiungendo l'usanza degli uomini che tendevano a continuare a vivere nel paese dove erano nati, mentre parte delle donne venivano da altre zone, fatto che ne sottolinea la costante mobilità.
Per la ricerca sono stati analizzati i resti di 84 individui sepolti in fosse nella valle di Lech. La regola vede che i siti di sepoltura ospitavano un'unica famiglia: questo piteva significare anche generazioni differenti sepolte nello stesso luogo. Dalle analisi del Dna e quelle degli isotopi dello stronzio nei denti i ricercatori hanno notato una diversità genetica nella linea ereditaria femminile, fatto che indica come molte donne migravano da altre aree. Anche se "migranti" e provenienti da altre realtà, le donne furono però integrate nelle nuove famiglie e sepolte con i componenti della popolazione nativa.
In più, in questa società di tipo patriarcale, dove le famiglie si stabilivano nelle zone di residenza dell'uomo, per gli studiosi la mobilità femminile durò almeno 800 anni. Le donne contribuirono così a trasmettere conoscenze, come quelle sulla lavorazione dei metalli, scambiare informazioni su utensili, tecnologia, usi e costumi.
L'archeologo Philipp Stockhammer spiega: "Tutti noi conosciamo storie di uomini guerrieri e cacciatori che combattono e tornano con il cibo mentre le donne e i bambini restano a casa, ma sembra che le cose fossero decisamente diverse. Il nostro studio suggerisce invece che quasi nessuno degli uomini aveva viaggiato, mentre due terzi delle donne li facevano. Da quel che abbiamo dedotto lo scopo della mobilità femminile era la ricerca di un marito. Non ci sono prove di "forzatura" da parte delle loro famiglie d'origine: le donne straniere non mostrano segni di differenza nelle loro sepolture rispetto a quelle locali. Sembrano avere lo stesso status".
Le donne potevano spostarsi anche cinquecento chilometri lontano dai loro villaggi e dove andavano portavano idee e nuove usanze.
Più passa il tempo e più mi rendo conto che alcuni stereotipi sono infondati e semplicemente tali sono destinati a rimanere. In fondo, in fondo, che le fonne fossero sempre state veicolo di cultura e conoscenza, forse non ce lo dovevano dire le nostre antenate nord europee del Neolitico.
Università italiana brevetta "l'uovo vegano"
L'Ateneo di Udine ha fatto l'uovo, è suo il brevetto dell'alimento, composto da farine, oli e gelificante.
A vederlo è tale quale al più normale uovo sodo prodotto dalla gallina. Invece, nonostante l'aspetto e le caratteristiche organolettiche è un uovo vegano, interamente ottenuto con ingredienti di origine vegetale, brevetto numero cento dell'Università di Udine.
L'innovativo alimento si presenta come un prodotto pronto al consumo, indirizzato a tutti quelli che seguono un regime alimentare vegano, ma anche a persone che soffrono di ipercolesterolemia o celiachia, essendo privo di colesterolo e glutine.
Il merito di quest'invenzione va a quattro studentesse del corso di laurea magistrale in Scienze e Tecnologie Alimentari dell'Università friulana. Francesca Zuccolo, Greta Titton, Arianna Roi e Aurora Gobessi dopo un anno e mezzo circa di lavoro di sperimentazione nei laboratori del Dipartimento di Scienze Agroalimentari, Ambientali e Animali.
A breve, comincerà anche il percorso di commercializzazione del prodotto, con la presentazione alle aziende potenzialmente interessate ad acquistare il procedimento per ottenere questo nuovo prodotto alimentare.
L'uovo veggy è completamente composto da ingredienti di origine naturale e vegetale, in gran parte proteici, di farine di diversi legumi, oli vegetali, un gelificante e un sale speciale. È un prodotto refrigerato, pronto al consumo, da mangiare in insalata o in abbinamento a diverse salse. Pensato proprio per l'industria alimentare, soprattutto per le aziende che producono già prodotti destinati a consumatori vegani o alimentari funzionali.
Potrà poi essere venduto in negozi alimentari biologici, vegetariani e vegani, ma anche nei supermercati, vista la sempre crescente richiesta di prodotti di questo tipo da parte dei consumatori.
Antonio Abramo, delegato ai brevetti dell'Università di Udine, dichiara:"Il centesimo brevetto ci rende particolarmente orgogliosi perché è il frutto della fantasia inventiva di quattro giovani studentesse, nell'ambito di un percorso didattico che ha permesso di mettere in pratica la capacità imprenditoriale che hanno gli studenti".
Pensandoci, la creatività dei giovani non ha confine. A chi si è sempre chiesto se sia nato prima l'uovo o la gallina, queste quattro studentesse friulane possono affermare che per lo meno, il primo uovo vegano l'hanno creato loro.
A vederlo è tale quale al più normale uovo sodo prodotto dalla gallina. Invece, nonostante l'aspetto e le caratteristiche organolettiche è un uovo vegano, interamente ottenuto con ingredienti di origine vegetale, brevetto numero cento dell'Università di Udine.
L'innovativo alimento si presenta come un prodotto pronto al consumo, indirizzato a tutti quelli che seguono un regime alimentare vegano, ma anche a persone che soffrono di ipercolesterolemia o celiachia, essendo privo di colesterolo e glutine.
Il merito di quest'invenzione va a quattro studentesse del corso di laurea magistrale in Scienze e Tecnologie Alimentari dell'Università friulana. Francesca Zuccolo, Greta Titton, Arianna Roi e Aurora Gobessi dopo un anno e mezzo circa di lavoro di sperimentazione nei laboratori del Dipartimento di Scienze Agroalimentari, Ambientali e Animali.
A breve, comincerà anche il percorso di commercializzazione del prodotto, con la presentazione alle aziende potenzialmente interessate ad acquistare il procedimento per ottenere questo nuovo prodotto alimentare.
L'uovo veggy è completamente composto da ingredienti di origine naturale e vegetale, in gran parte proteici, di farine di diversi legumi, oli vegetali, un gelificante e un sale speciale. È un prodotto refrigerato, pronto al consumo, da mangiare in insalata o in abbinamento a diverse salse. Pensato proprio per l'industria alimentare, soprattutto per le aziende che producono già prodotti destinati a consumatori vegani o alimentari funzionali.
Potrà poi essere venduto in negozi alimentari biologici, vegetariani e vegani, ma anche nei supermercati, vista la sempre crescente richiesta di prodotti di questo tipo da parte dei consumatori.
Antonio Abramo, delegato ai brevetti dell'Università di Udine, dichiara:"Il centesimo brevetto ci rende particolarmente orgogliosi perché è il frutto della fantasia inventiva di quattro giovani studentesse, nell'ambito di un percorso didattico che ha permesso di mettere in pratica la capacità imprenditoriale che hanno gli studenti".
Pensandoci, la creatività dei giovani non ha confine. A chi si è sempre chiesto se sia nato prima l'uovo o la gallina, queste quattro studentesse friulane possono affermare che per lo meno, il primo uovo vegano l'hanno creato loro.
martedì 19 settembre 2017
Le reliquie di Padre Pio sbarcano a New York
File interminabili per vedere il mantello e i guanti macchiati di sangue, esposti per due giorni nella cattedrale di Saint Patrick.
In Italia sarebbe stato ovvio suscitare una reazione simile. Ma a New York, una folla simile si pensava possibile solo per il tour di una famosa star del rock. Invece, a richiamare così tante persone che da ogni angolo si sono messe in fila per entrare nella cattedrale sulla Quinta Avenue di Manhattan sono state le reliquie di San Pio.
Moltitudini di curiosi, fedeli, accorsi da ogni parte degli Stati Uniti, poliziotti, troupes televisive e bancarelle che vendono souvenir e magliette con l'effige del Santo, sono giunti per vedere da vicino il suo mantello e i suoi guanti macchiati del sangue, esposti per 2 giorni nella maestosa cattedrale di Saint Patrick.
Un arrivo attesissimo, quello delle "testimonianze" di Padre Pio, che è stato riportato da tutti i giornali e i media americani, che hanno dato largo spazio al fenomeno del Santo campano con le stigmate, che a quasi mezzo secolo dalla scomparsa e a 15 dalla canonizzazione, continua ad avere molto seguito in Italia e anche in tutto il mondo.
Per questo le reliquie di Padre Pio stanno viaggiando per l'intero Pianeta e quello di New York è solo l'ultima tappa del "tour" oltre-Atlantico. Infatti, questi oggetti sono stati ospitati anche in altre città da Milwaukee a Bridgeport, da St. Louis a Chicago.
Secondo le stime di Luciano Lamarca, fondatore della Fondazione Padre Pio, sono stati oltre 200 mila gli americani che hanno visto e toccato gli oggetti sacri appartenuti al Santo.
È stato un successo graditissimo e un vero e proprio regalo per i fedeli, ma non sono mancate neanche le polemiche. Alcuni media hanno ricordato le insinuazioni sul possibile uso di acido per provocare le stigmate e hanno ironizzato sugli aspetti commerciali e poco "religiosi" del tour. Oppure, proprio a Saint Patrick sono state molto criticate delle macchinette per incidere a pagamento il volto di Padre Pio sulle monetine.
Polemiche ormai consuete che non hanno fatto demordere i veri fedeli accorsi lì per seguire soprattutto la Messa, in gran numero, mentre a pochi metri nel Palazzo di Vetro, si apriva l'Assemblea Generale dell'Onu con l'arrivo di Presidenti e Ministri di 193 Paesi.
Ci sono dei fenomeni, delle personalità talmente grandi, che è inevitabile non provocare anche scontenti e chiacchiericci o malumori. Ma proprio come in questo caso, l'aurea di tali personalità è talmente forte e veritiera da andare al di là di tutti i malpensanti e sfruttatori che possono cavalcare in qualsiasi modo l'onda del fenomeno.
In Italia sarebbe stato ovvio suscitare una reazione simile. Ma a New York, una folla simile si pensava possibile solo per il tour di una famosa star del rock. Invece, a richiamare così tante persone che da ogni angolo si sono messe in fila per entrare nella cattedrale sulla Quinta Avenue di Manhattan sono state le reliquie di San Pio.
Moltitudini di curiosi, fedeli, accorsi da ogni parte degli Stati Uniti, poliziotti, troupes televisive e bancarelle che vendono souvenir e magliette con l'effige del Santo, sono giunti per vedere da vicino il suo mantello e i suoi guanti macchiati del sangue, esposti per 2 giorni nella maestosa cattedrale di Saint Patrick.
Un arrivo attesissimo, quello delle "testimonianze" di Padre Pio, che è stato riportato da tutti i giornali e i media americani, che hanno dato largo spazio al fenomeno del Santo campano con le stigmate, che a quasi mezzo secolo dalla scomparsa e a 15 dalla canonizzazione, continua ad avere molto seguito in Italia e anche in tutto il mondo.
Per questo le reliquie di Padre Pio stanno viaggiando per l'intero Pianeta e quello di New York è solo l'ultima tappa del "tour" oltre-Atlantico. Infatti, questi oggetti sono stati ospitati anche in altre città da Milwaukee a Bridgeport, da St. Louis a Chicago.
Secondo le stime di Luciano Lamarca, fondatore della Fondazione Padre Pio, sono stati oltre 200 mila gli americani che hanno visto e toccato gli oggetti sacri appartenuti al Santo.
È stato un successo graditissimo e un vero e proprio regalo per i fedeli, ma non sono mancate neanche le polemiche. Alcuni media hanno ricordato le insinuazioni sul possibile uso di acido per provocare le stigmate e hanno ironizzato sugli aspetti commerciali e poco "religiosi" del tour. Oppure, proprio a Saint Patrick sono state molto criticate delle macchinette per incidere a pagamento il volto di Padre Pio sulle monetine.
Polemiche ormai consuete che non hanno fatto demordere i veri fedeli accorsi lì per seguire soprattutto la Messa, in gran numero, mentre a pochi metri nel Palazzo di Vetro, si apriva l'Assemblea Generale dell'Onu con l'arrivo di Presidenti e Ministri di 193 Paesi.
Ci sono dei fenomeni, delle personalità talmente grandi, che è inevitabile non provocare anche scontenti e chiacchiericci o malumori. Ma proprio come in questo caso, l'aurea di tali personalità è talmente forte e veritiera da andare al di là di tutti i malpensanti e sfruttatori che possono cavalcare in qualsiasi modo l'onda del fenomeno.
"Il canto della fabbrica" diretto dal maestro Accardo per la Pirelli
Concerto per Mito nel polo di Settimo Torinese, firmato da Renzo Piano.
È sicuramente un brano musicale unico nel suo genere. Solo "Il canto della fabbrica" può vantare tra le sue melodie, la vita del grande stabilimento produttivo, il lavoro dell'uomo e la voce delle macchine.
Il canto è stato commissionato dalla Fondazione Pirelli, al compositore e violinista Francesco Fiore, nato nel Polo industriale Pirelli di Settimo Torinese, esempio dell'industria 4.0, è stato eseguito in prima assoluta durante il Festival Mito Settembre Musica. L'Orchestra da Camera Italiana, è diretta dal maestro Salvatore Accardo e guidata dal primo violino Laura Gorna.
Il titolo "La fabbrica dei ciliegi" richiama i 500 alberi di ciliegio che fiancheggiano lo stabilimento.
Ha fatto gli onori di casa, nel sito produttivo di Settimo, firmato dall'archistar Renzo Piano, il Presidente di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, che ha accolto un migliaio di ospiti, tra i quali 250 dipendenti e le loro famiglie. Molti i personaggi illustri: il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia e la sua vice Licia Mattioli, il Presidente di Assolombardia, Carlo Bonomi, la sindaca Chiara Appendino, il numero uno degli industriali torinesi Dario Gallina.
L'originale sala del concerto è stato il reparto confezione degli pneumatici. Tronchetti Provera precisa: "In questo concerto la musica nasce dalla vita della fabbrica nel senso più artistico del termine. Non il rumore, come storicamente s'intendeva, ma la bellezza della musica ispirata dalla bella fabbrica. Si sente in questa composizione la fabbrica tecnologica".
L'evento che consolida il rapporto tra Pirelli e il Festival Mito Settembre Musica avviato nel 2007 celebra gli 80 anni dalla composizione della prima musica per fabbrica, la celebre Sinfonia N.2, composta nel 1927 da Dmitrij Shostakovich per il decennale della Rivoluzione Russa.
Lo stabilimento più tecnologico del gruppo, ultramoderno, sicuro, luminoso e in gran parte digitale merita un racconto in musica. Per questo è nato "Il canto della fabbrica".
E come aggiunge il maestro Accardo: "Non è la prima volta che si fa un concerto in fabbrica, ce ne sono stati negli anni Settanta. Questa volta però i protagonisti sono i robot. Ci sono movimenti ritmici che ricordano i robot, la loro presenza si sente nella composizione".
È dal periodo della Seconda Rivoluzione Industriale che i rumori delle catene di montaggio nelle fabbriche scandiscono il ritmo di vita per alcuni. Ma mai come in questo periodo storico è giusto celebrare dei rumori che per molti significano musica.
È sicuramente un brano musicale unico nel suo genere. Solo "Il canto della fabbrica" può vantare tra le sue melodie, la vita del grande stabilimento produttivo, il lavoro dell'uomo e la voce delle macchine.
Il canto è stato commissionato dalla Fondazione Pirelli, al compositore e violinista Francesco Fiore, nato nel Polo industriale Pirelli di Settimo Torinese, esempio dell'industria 4.0, è stato eseguito in prima assoluta durante il Festival Mito Settembre Musica. L'Orchestra da Camera Italiana, è diretta dal maestro Salvatore Accardo e guidata dal primo violino Laura Gorna.
Il titolo "La fabbrica dei ciliegi" richiama i 500 alberi di ciliegio che fiancheggiano lo stabilimento.
Ha fatto gli onori di casa, nel sito produttivo di Settimo, firmato dall'archistar Renzo Piano, il Presidente di Pirelli, Marco Tronchetti Provera, che ha accolto un migliaio di ospiti, tra i quali 250 dipendenti e le loro famiglie. Molti i personaggi illustri: il Presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia e la sua vice Licia Mattioli, il Presidente di Assolombardia, Carlo Bonomi, la sindaca Chiara Appendino, il numero uno degli industriali torinesi Dario Gallina.
L'originale sala del concerto è stato il reparto confezione degli pneumatici. Tronchetti Provera precisa: "In questo concerto la musica nasce dalla vita della fabbrica nel senso più artistico del termine. Non il rumore, come storicamente s'intendeva, ma la bellezza della musica ispirata dalla bella fabbrica. Si sente in questa composizione la fabbrica tecnologica".
L'evento che consolida il rapporto tra Pirelli e il Festival Mito Settembre Musica avviato nel 2007 celebra gli 80 anni dalla composizione della prima musica per fabbrica, la celebre Sinfonia N.2, composta nel 1927 da Dmitrij Shostakovich per il decennale della Rivoluzione Russa.
Lo stabilimento più tecnologico del gruppo, ultramoderno, sicuro, luminoso e in gran parte digitale merita un racconto in musica. Per questo è nato "Il canto della fabbrica".
E come aggiunge il maestro Accardo: "Non è la prima volta che si fa un concerto in fabbrica, ce ne sono stati negli anni Settanta. Questa volta però i protagonisti sono i robot. Ci sono movimenti ritmici che ricordano i robot, la loro presenza si sente nella composizione".
È dal periodo della Seconda Rivoluzione Industriale che i rumori delle catene di montaggio nelle fabbriche scandiscono il ritmo di vita per alcuni. Ma mai come in questo periodo storico è giusto celebrare dei rumori che per molti significano musica.
lunedì 18 settembre 2017
Una notte extralusso nei centri commerciali per i patiti dello shopping
Iniziativa inglese che mette in palio una notte in un appartamento con maggiordomo e camerieri nella storica catena di centri commerciali John Lewis.
Chi non ha mai sognato di rimanere rinchiusi per una notte in un grande magazzino. Per ponderare meglio le spese, studiare attentamente ogni prodotto, provare un'infinità di abiti e scarpe e riempire all'inverosimile i carrelli e magari pernottare pure lì?
Ci ha pensato John Lewis, storica catena di centri commerciali londinese che promuove l'idea di far fare compere no stop. I patiti dello shopping potranno rimanere nei magazzini anche di notte perché lo shopping center di Londra resterà aperto 24 ore, anche per dormirci, cone se si fosse a casa propria.
La John Lewis è ormai famosa in tutto il mondo per le attesissime pubblicità di Natale, divenute ormai una tradizione e un evento con l'albero del presepe o l'uscita di un film.
È proprio in occasione delle prossime festività natalizie, che l'azienda ha pensato a una nuova iniziativa: predisporre all'interno della sua sede principale, i grandi magazzini di Oxford Street, cuore dello shopping della capitale britannica, un intero appartamento in cui tutto l'arredamento, ovviamente, viene dai vari dipartimenti della John Lewis.
Di giorno, potrà essere visitato come un qualunque settore dell'azienda, mentre, un certo numero di clienti estratti a sorte, potranno trascorrere la notte nell'appartamento, serviti da camerieri e maggiordomo, per una esperienza extralusso.
La trovata pubblicitaria sarà attiva per i 4 weekend che precedono il Natale, periodo in cui maggiormente si concentra l'usanza di fare shopping. Il pubblico potrà quindi visitare l'abitazione dal 25 Novembre. E per gli "shopaholics", gli shopping dipendenti, è un sogno che diventerà realtà.
Anche questa volta la storica catena commerciale, ha tirato fuori una trovata promozionale stupefacente. L'obiettivo è quello di reclamizzare i propri prodotti nella corsa verso il 25 Dicembre, ma lo ha fatto davvero con classe.
Già si vocifera che se l'iniziativa avrà successo, potrebbero provarci anche i concorrenti Harrod's e Selfridge's. Offrire ore di ristoro notturno, dopo ore di shopping sfrenato di giorno.
Tutti abbiamo dei sogni particolari, più o meno idee strambe che ci piacerebbe realizzare, con questa teovata, i patiti dello shopping avranno una possibilità in più di realizzare il proprio.
Chi non ha mai sognato di rimanere rinchiusi per una notte in un grande magazzino. Per ponderare meglio le spese, studiare attentamente ogni prodotto, provare un'infinità di abiti e scarpe e riempire all'inverosimile i carrelli e magari pernottare pure lì?
Ci ha pensato John Lewis, storica catena di centri commerciali londinese che promuove l'idea di far fare compere no stop. I patiti dello shopping potranno rimanere nei magazzini anche di notte perché lo shopping center di Londra resterà aperto 24 ore, anche per dormirci, cone se si fosse a casa propria.
La John Lewis è ormai famosa in tutto il mondo per le attesissime pubblicità di Natale, divenute ormai una tradizione e un evento con l'albero del presepe o l'uscita di un film.
È proprio in occasione delle prossime festività natalizie, che l'azienda ha pensato a una nuova iniziativa: predisporre all'interno della sua sede principale, i grandi magazzini di Oxford Street, cuore dello shopping della capitale britannica, un intero appartamento in cui tutto l'arredamento, ovviamente, viene dai vari dipartimenti della John Lewis.
Di giorno, potrà essere visitato come un qualunque settore dell'azienda, mentre, un certo numero di clienti estratti a sorte, potranno trascorrere la notte nell'appartamento, serviti da camerieri e maggiordomo, per una esperienza extralusso.
La trovata pubblicitaria sarà attiva per i 4 weekend che precedono il Natale, periodo in cui maggiormente si concentra l'usanza di fare shopping. Il pubblico potrà quindi visitare l'abitazione dal 25 Novembre. E per gli "shopaholics", gli shopping dipendenti, è un sogno che diventerà realtà.
Anche questa volta la storica catena commerciale, ha tirato fuori una trovata promozionale stupefacente. L'obiettivo è quello di reclamizzare i propri prodotti nella corsa verso il 25 Dicembre, ma lo ha fatto davvero con classe.
Già si vocifera che se l'iniziativa avrà successo, potrebbero provarci anche i concorrenti Harrod's e Selfridge's. Offrire ore di ristoro notturno, dopo ore di shopping sfrenato di giorno.
Tutti abbiamo dei sogni particolari, più o meno idee strambe che ci piacerebbe realizzare, con questa teovata, i patiti dello shopping avranno una possibilità in più di realizzare il proprio.
sabato 16 settembre 2017
Assegnato Premio Ig Nobel a italiani
I vincitori della "parodia del Nobel" sono italiani e hanno vinto grazie a uno studio sui gemelli che non riconoscono se stessi.
"Sono io il mio gemello?" Grazie a questa improbabile ricerca, due studiosi riceveranno un assegno da 10 trilioni di dollari dello Zimbabwe, vale a dire: 3 dollari Usa.
Al Sanders Theater dell'Università di Harvard, si terrà la cerimonia di consegna dei Premi che ha visto due giovani ricercatori, Ilaria Bufalari e Matteo Martini, ricevere l'Ig Nobel per la sezione Psicologia in rappresentanza di tutto il gruppo di ricerca guidato dal prof. Salvatore Maria Aglioti, responsabile del Laboratorio di Neuroscienze Sociali presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS e l'Università Sapienza di Roma per uno studio sui gemelli omozigoti che hanno difficoltà a riconoscere il proprio volto da quello del fratello.
A consegnare l'ambitissimo riconoscimento, come prevede da sampre il cerimoniale ufficiale, sarà uno scienziato fregiato con il Nobel "originale". La coppia italiana presenterà i risultati dello studio durante una "Informal Lecture" al Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Ormai, il premio Ig Nobel è un evento consolidato, un riconoscimento internazionale giunto alla sua 27ma edizione ed ha lo scopo di premiare le ricerche più improbabili del mondo.
Gli italiani vincitori hanno sbaragliato le proposte di oltre 10 mila candidature. Ilaria Bufalari, commenta così il risultato: "Quando ci hanno comunicato dagli Stati Uniti che avevamo vinto, abbiamo subito pensato a uno scherzo, anche perché di nostra iniziativa non ci eravamo candidati. Ci piace lo spirito di questo premio. Ci ricorda con la forza di chi sa fare autoironia, quanto sia importante nella ricerca pensare talvolta anche in modo apparentemente banale, esporsi perfino al rischio di essere derisi, se siamo convinti che serva a progredire nella nostra conoscenza delle cose".
Un riconoscimento apparentemente ironico per ricerche anche serie. D'altro canto il team di ricercatori, che comprende anche la dottoressa Antonia Stazi, direttrice del Registro Gemelli dell'Istituto Superiore di Sanità, ha confrontato i meccanismi di riconoscimento del proprio volto in gemelli monozigoti rispetto alla maggior parte di tutti noi, che non condividiamo il destino di aver al mondo un'altra persona dall'aspetto identico.
I risultati hanno confermato che i gemelli presentano maggiori difficoltà a distinguersi, e al contempo hanno anche aperto ipotesi su strategie di compensazione che attuano mediante la cosiddetta "congruenza multisensioriale" e altre dinamiche legate alla formazione dell'identità corporea e della consapevolezza di sé.
L'Ig Nobel premia ricerche vere, pubblicate su riviste scientifiche vere. I due vincitori italiani hanno ben intuito che un gemello ha difficoltà a riconoscersi, ma sicuramente hanno saputo ben riconoscersi sulla buona strada della ricerca scientifica.
"Sono io il mio gemello?" Grazie a questa improbabile ricerca, due studiosi riceveranno un assegno da 10 trilioni di dollari dello Zimbabwe, vale a dire: 3 dollari Usa.
Al Sanders Theater dell'Università di Harvard, si terrà la cerimonia di consegna dei Premi che ha visto due giovani ricercatori, Ilaria Bufalari e Matteo Martini, ricevere l'Ig Nobel per la sezione Psicologia in rappresentanza di tutto il gruppo di ricerca guidato dal prof. Salvatore Maria Aglioti, responsabile del Laboratorio di Neuroscienze Sociali presso la Fondazione Santa Lucia IRCCS e l'Università Sapienza di Roma per uno studio sui gemelli omozigoti che hanno difficoltà a riconoscere il proprio volto da quello del fratello.
A consegnare l'ambitissimo riconoscimento, come prevede da sampre il cerimoniale ufficiale, sarà uno scienziato fregiato con il Nobel "originale". La coppia italiana presenterà i risultati dello studio durante una "Informal Lecture" al Massachusetts Institute of Technology (MIT).
Ormai, il premio Ig Nobel è un evento consolidato, un riconoscimento internazionale giunto alla sua 27ma edizione ed ha lo scopo di premiare le ricerche più improbabili del mondo.
Gli italiani vincitori hanno sbaragliato le proposte di oltre 10 mila candidature. Ilaria Bufalari, commenta così il risultato: "Quando ci hanno comunicato dagli Stati Uniti che avevamo vinto, abbiamo subito pensato a uno scherzo, anche perché di nostra iniziativa non ci eravamo candidati. Ci piace lo spirito di questo premio. Ci ricorda con la forza di chi sa fare autoironia, quanto sia importante nella ricerca pensare talvolta anche in modo apparentemente banale, esporsi perfino al rischio di essere derisi, se siamo convinti che serva a progredire nella nostra conoscenza delle cose".
Un riconoscimento apparentemente ironico per ricerche anche serie. D'altro canto il team di ricercatori, che comprende anche la dottoressa Antonia Stazi, direttrice del Registro Gemelli dell'Istituto Superiore di Sanità, ha confrontato i meccanismi di riconoscimento del proprio volto in gemelli monozigoti rispetto alla maggior parte di tutti noi, che non condividiamo il destino di aver al mondo un'altra persona dall'aspetto identico.
I risultati hanno confermato che i gemelli presentano maggiori difficoltà a distinguersi, e al contempo hanno anche aperto ipotesi su strategie di compensazione che attuano mediante la cosiddetta "congruenza multisensioriale" e altre dinamiche legate alla formazione dell'identità corporea e della consapevolezza di sé.
L'Ig Nobel premia ricerche vere, pubblicate su riviste scientifiche vere. I due vincitori italiani hanno ben intuito che un gemello ha difficoltà a riconoscersi, ma sicuramente hanno saputo ben riconoscersi sulla buona strada della ricerca scientifica.
La "regina rosa" celebrata nel festival "Mortadella please"
Dal 16 al 17 Settembre a Zola Predosa (Bologna), sale sul trono la "regina rosa" con i suoi mille abbinamenti a ricette e vini dei Colli.
Si terrà questo weekend l'appuntamento per i lussuriosi del gusto. A Zola Pedrosa, cittadella del bolognese, si potranno assaporare ricette a base di mortadella, in abbinamento ai vini dei Colli romagnoli. È così servito il "Mortadella Please", Festival celebrativo della "regina rosa".
Come location della festa dedicata al popolare ed amatissimo insaccato è stato scelto il territorio di produzione e sede di due aziende: Alcisa e Felsineo, main sponsor della manifestazione, che proporranno al pubblico anche visite guidate. Tutto parlerà di lei, del suo aroma, del suo sapore, del suo gusto.
Il paesino è inoltre famoso per esser pure "Città del vino", in merito alle numerose cantine che producono ottimi vini, tra cui, quello che meglio si addice ad essere accostato all'insaccato è il bianco autoctono Pignoletto dei Colli Bolognesi.
Quest'anno si è giunti all'undicesima edizione, ospitata nella piazza di Zola, recentemente inaugarata per l'occasione e dove una tensostruttura ospiterà il ristorante della cooperativa BoloMitici, che proporrà un menù degustazione con la regina rosa, rivisitata in mille interpretazioni culinarie. Tra uno spizzico e l'altro si potrà assistere pure a mostre mercato di prodotti tipici di qualità del territorio, street food, intrattenimento e animazione per bambini, dj set e cooking live show con popolari chef.
La provincia bolognese si appresta a servire una festa di paese per il suo insaccato più famoso, diventato un simbolo del Paese. Che lo si odi o lo si ami, la mortadella rappresenta comunque una fetta della nostra cultura, e una fetta sicuramente autentica e verace come il territorio in cui viene prodotta.
Si terrà questo weekend l'appuntamento per i lussuriosi del gusto. A Zola Pedrosa, cittadella del bolognese, si potranno assaporare ricette a base di mortadella, in abbinamento ai vini dei Colli romagnoli. È così servito il "Mortadella Please", Festival celebrativo della "regina rosa".
Come location della festa dedicata al popolare ed amatissimo insaccato è stato scelto il territorio di produzione e sede di due aziende: Alcisa e Felsineo, main sponsor della manifestazione, che proporranno al pubblico anche visite guidate. Tutto parlerà di lei, del suo aroma, del suo sapore, del suo gusto.
Il paesino è inoltre famoso per esser pure "Città del vino", in merito alle numerose cantine che producono ottimi vini, tra cui, quello che meglio si addice ad essere accostato all'insaccato è il bianco autoctono Pignoletto dei Colli Bolognesi.
Quest'anno si è giunti all'undicesima edizione, ospitata nella piazza di Zola, recentemente inaugarata per l'occasione e dove una tensostruttura ospiterà il ristorante della cooperativa BoloMitici, che proporrà un menù degustazione con la regina rosa, rivisitata in mille interpretazioni culinarie. Tra uno spizzico e l'altro si potrà assistere pure a mostre mercato di prodotti tipici di qualità del territorio, street food, intrattenimento e animazione per bambini, dj set e cooking live show con popolari chef.
La provincia bolognese si appresta a servire una festa di paese per il suo insaccato più famoso, diventato un simbolo del Paese. Che lo si odi o lo si ami, la mortadella rappresenta comunque una fetta della nostra cultura, e una fetta sicuramente autentica e verace come il territorio in cui viene prodotta.
venerdì 15 settembre 2017
Soggiornare dove hanno dormito poeti e scrittori
Il Landmark Trust è un'organizzazione no profit britannica che dal 1965 acquisisce castelli, ville e altri edifici ricchi di storia per renderli accessibili al pubblico.
Chissà dove e come vivevano i poeti di una volta. Oggi, grazie a Landmark Trust è possibile scoprirlo. Anzi, è proprio possibile soggiornare in un'antica dimora storica. L'ente britannico no profit, dal 1965 acquisisce castelli, ville e altri edifici ricchi di storia per restaurarli e renderli accessibili ai visitatori.
L'azienda per finanziare la gestione dei beni di sua proprietà li apre a chi volesse scoprirli a prezzi davvero contenuti. L'emozione di un soggiorno davvero unico, in Italia, può costare da 20 a 50 euro a notte a persona, eccetto l'appartamento romano he costa un po' di più, 90 euro.
Da anni l'Ente è presente nel Regno Unito con oltre 200 residenze storiche, mentre nel Belpaese ha cominciato ad operare da poco, e in alcuni casi in collaborazione con il Fai-Fondo Ambientale Italiano.
Tra Roma e Firenze, attualmente sono disponibili 6 location da favola. Nella capitale si può alloggiare al numero 26 di Piazza di Spagna, in un appartamento da 3 o 4 posti letto situato sopra il Museo dedicato ai Poeti Romantici Inglesi, che ha sede nell'abitazione che ha ospitato il poeta John Keats.
A Firenze si può sostare in un appartamento da 6 posti letto che si trova nell'edificio di Casa Guidi, che ha ospitato i poeti Elizabeth Barrett e Robert Browing, che qui trascorsero insieme gran parte della loro vita. La dimora è visitabile anche nei pomeriggi di lunedì, mercoledì e venerdì von ingresso gratuito.
Poi, si può soggiornare ancora in Villa Sant'Antonio a Tivoli, forse appartenuta al poeta Orazio e in Veneto, a Villa Saraceno a Finale, nei pressi di Vicenza e Villa dei Vescovi a Luvigliano, vicino a Padova. Villa dei Vescovi è un bene Fai, immerso nella verde bellezza dei Colli Euganei, decantata anche dal Foscolo.
Più modesta invece è la "Casetta dei Pescatori" nel borgo ligure di San Fruttuoso, a pochi passi dal monastero benedettino e comunque meritevole di lode.
La Landmark Trust offre sicuramente un turismo d'elite, alloggi di grande valore artistico e culturale a prezzi davvero contenuti, anche per questo e per la limitatezza dei posti, è sempre bene prenotare con ampio anticipo.
Per gli appassionati del bello e del turismo fuori dagli schemi, e dai gusti di massa, è davvero un'occasione unica, visitare e rivivere le stesse atmosfere che magari hanno ispirato i grandi poeti del passato.
Chissà dove e come vivevano i poeti di una volta. Oggi, grazie a Landmark Trust è possibile scoprirlo. Anzi, è proprio possibile soggiornare in un'antica dimora storica. L'ente britannico no profit, dal 1965 acquisisce castelli, ville e altri edifici ricchi di storia per restaurarli e renderli accessibili ai visitatori.
L'azienda per finanziare la gestione dei beni di sua proprietà li apre a chi volesse scoprirli a prezzi davvero contenuti. L'emozione di un soggiorno davvero unico, in Italia, può costare da 20 a 50 euro a notte a persona, eccetto l'appartamento romano he costa un po' di più, 90 euro.
Da anni l'Ente è presente nel Regno Unito con oltre 200 residenze storiche, mentre nel Belpaese ha cominciato ad operare da poco, e in alcuni casi in collaborazione con il Fai-Fondo Ambientale Italiano.
Tra Roma e Firenze, attualmente sono disponibili 6 location da favola. Nella capitale si può alloggiare al numero 26 di Piazza di Spagna, in un appartamento da 3 o 4 posti letto situato sopra il Museo dedicato ai Poeti Romantici Inglesi, che ha sede nell'abitazione che ha ospitato il poeta John Keats.
A Firenze si può sostare in un appartamento da 6 posti letto che si trova nell'edificio di Casa Guidi, che ha ospitato i poeti Elizabeth Barrett e Robert Browing, che qui trascorsero insieme gran parte della loro vita. La dimora è visitabile anche nei pomeriggi di lunedì, mercoledì e venerdì von ingresso gratuito.
Poi, si può soggiornare ancora in Villa Sant'Antonio a Tivoli, forse appartenuta al poeta Orazio e in Veneto, a Villa Saraceno a Finale, nei pressi di Vicenza e Villa dei Vescovi a Luvigliano, vicino a Padova. Villa dei Vescovi è un bene Fai, immerso nella verde bellezza dei Colli Euganei, decantata anche dal Foscolo.
Più modesta invece è la "Casetta dei Pescatori" nel borgo ligure di San Fruttuoso, a pochi passi dal monastero benedettino e comunque meritevole di lode.
La Landmark Trust offre sicuramente un turismo d'elite, alloggi di grande valore artistico e culturale a prezzi davvero contenuti, anche per questo e per la limitatezza dei posti, è sempre bene prenotare con ampio anticipo.
Per gli appassionati del bello e del turismo fuori dagli schemi, e dai gusti di massa, è davvero un'occasione unica, visitare e rivivere le stesse atmosfere che magari hanno ispirato i grandi poeti del passato.
Se la moglie è obesa aumenta il rischio di diabete per il marito
Uno studio senza precedenti indaga sul legame coniugale rispetto al rischio diabete, l'effetto non vale per le donne.
Uniti nella buona e cattiva sorte, in salute e in malattia e in obesità e diabete. Ormai, si potrà dire anche così. Una ricerca svela che avere una moglie obesa aumenta in modo significativo il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 nel marito, particolarmente nelle coppie over 50. Lo studio, antesignano nel suo genere, indaga sul legame coniugale rispetto al diabete, commissionato dalla Aarhus University in Danimarca e presentato al Congresso dell'Associazione Europea per lo studio del diabete (Easd).
Secondo i ricercatori quindi l'obesità della partner può portare all'obesità dell'uomo a causa dei molti comportamenti a rischio che inducono alla malattia e che sono condivisi nella coppia, come un'alimentazione poco sana e la carenza di attività fisica. Finora il focus dell'attenzione era indirizzato a quella prepotente predisposizione al diabete in persone con storia familiare della malattia, mentre non era mai stato indagato l'influenza del legame coniugale legato al sesso.
Lo studio ha analizzato 3.650 uomini e 3.478 donne (di età pari a 50 anni o superiore) basandosi sulla ricerca nazionale inglese "English longitudinal study of ageing Elsa" relativa al periodo 1998-2005. Dall'analisi durata oltre 10 anni, è risultato che la percentuale di nuovi casi di diabete in relazione al legame coniugale era pari a 12,6 casi per mille l'anno tra gli uomini e 8,6 tra le donne. Grosso modo, per 5 chili in più di peso della moglie, il rischio di sviluppare il diabete nel marito era maggiorato del 21%. Questo fenomeno non vale per l'inverso. L'effetto negativo non è reciproco, le donne con marito obeso non presentano infatti un rischio addizionale oltre a quello legato al proprio livello di obesità.
Questa curiosa rivelazione scientifica è comunque utile perché fa capire che in presenza di obesità della donna nella coppia, è consigliabile e giustificato fare uno screening per l'obesità anche nel partner maschile. Inoltre, "riconoscere" che esiste un rischio condiviso di sviluppare diabete nella coppia, può facilitare la diagnosi della malattia e motivare le coppie ad una maggiore prevenzione.
Che siano le donne a dettare legge nella coppia è cosa assodata e giusta, peccato che quel "nella buona e cattiva sorte" sia pure "in obesità e diabete".
Uniti nella buona e cattiva sorte, in salute e in malattia e in obesità e diabete. Ormai, si potrà dire anche così. Una ricerca svela che avere una moglie obesa aumenta in modo significativo il rischio di sviluppare il diabete di tipo 2 nel marito, particolarmente nelle coppie over 50. Lo studio, antesignano nel suo genere, indaga sul legame coniugale rispetto al diabete, commissionato dalla Aarhus University in Danimarca e presentato al Congresso dell'Associazione Europea per lo studio del diabete (Easd).
Secondo i ricercatori quindi l'obesità della partner può portare all'obesità dell'uomo a causa dei molti comportamenti a rischio che inducono alla malattia e che sono condivisi nella coppia, come un'alimentazione poco sana e la carenza di attività fisica. Finora il focus dell'attenzione era indirizzato a quella prepotente predisposizione al diabete in persone con storia familiare della malattia, mentre non era mai stato indagato l'influenza del legame coniugale legato al sesso.
Lo studio ha analizzato 3.650 uomini e 3.478 donne (di età pari a 50 anni o superiore) basandosi sulla ricerca nazionale inglese "English longitudinal study of ageing Elsa" relativa al periodo 1998-2005. Dall'analisi durata oltre 10 anni, è risultato che la percentuale di nuovi casi di diabete in relazione al legame coniugale era pari a 12,6 casi per mille l'anno tra gli uomini e 8,6 tra le donne. Grosso modo, per 5 chili in più di peso della moglie, il rischio di sviluppare il diabete nel marito era maggiorato del 21%. Questo fenomeno non vale per l'inverso. L'effetto negativo non è reciproco, le donne con marito obeso non presentano infatti un rischio addizionale oltre a quello legato al proprio livello di obesità.
Questa curiosa rivelazione scientifica è comunque utile perché fa capire che in presenza di obesità della donna nella coppia, è consigliabile e giustificato fare uno screening per l'obesità anche nel partner maschile. Inoltre, "riconoscere" che esiste un rischio condiviso di sviluppare diabete nella coppia, può facilitare la diagnosi della malattia e motivare le coppie ad una maggiore prevenzione.
Che siano le donne a dettare legge nella coppia è cosa assodata e giusta, peccato che quel "nella buona e cattiva sorte" sia pure "in obesità e diabete".
giovedì 14 settembre 2017
Era donna il capo dei guerrieri vichinghi
Lo svela il Dna dei resti trovati in un villaggio svedese.
Nell'immaginario collettivo sono sempre stati dipinti come degli omaccioni, potenti, ruvidi, guerrieri e marinai. Ora si scopre che i Vichinghi, gli antichi dominatori dell'Europa del Nord, erano in realtà molto aperti verso la parità dei sessi, come se non di più dei loro moderni discendenti. Avevano come capo una donna guerriera.
Lo dimostra l'analisi del Dna fatta sui resti trovati in Svezia, a Birka, in una tomba del X secolo. Jan Stora ha guidato le analisi di un'equipe di genetisti dell'Università di Stoccolma e i risultati sono stati pubblicati sull'American Journal of Psysical Antropology.
Era da 130 anni che gli archeologi si chiedevano se le ossa e gli oggetti trovati accanto al corpo di Bj 581 (il nome attribuito all'individuo nella tomba), fossero appartenuti a un uomo o una donna. Lì vennero rinvenute: una spada, un'ascia, una lancia, delle frecce, un coltello e soprattutto, una tavola e le relative pedine, utilizzata per pianificare tattiche e strategie. A destare stupore nei ricercatori è stato proprio questo corredo, tipico di un individuo di alto rango. In nessuna tomba di donne soldato vichinghe erano infatti mai stati trovati oggetti simili.
Lo scheletro, analizzato più volte negli anni, ha sempre suggerito che a Birka fosse sepolta una donna e la conferma definitiva è arrivata ora dall'analisi del Dna. Sebbene per i ricercatori sia ancora presto per dire se donne guerriero con ruoli di comando fossero un'eccezione o una condizione diffusa.
All'inizio del Medioevo i ricercatori di feroci donne-guerriere vichinghe che combattevano al fianco degli uomini hanno alimentato il mito delle Valchirie, ma questo non può far fare generalizzazioni. Tra l'VIII e il IX secolo il villaggio di Birka, dove sono stati trovati i resti, era un importante snodo commerciale, con una popolazione di un migliaio di abitanti, soprattutto commercianti, artigiani e guerrieri. La loro cultura, però, era diversa da quella della regione e forse questo ritrovamento sembra confermarlo.
Attualmente in un'epoca che si autodefinisce moderna, ma in cui in realtà la parità dei sessi è ancora ben lontana e si assiste ad un femminicidio al giorno, questa scoperta fa davvero sorridere e soprattutto riflettere su quanto popolazioni ormai scomparse fossero molto più civilizzate di quelle attuali.
Nell'immaginario collettivo sono sempre stati dipinti come degli omaccioni, potenti, ruvidi, guerrieri e marinai. Ora si scopre che i Vichinghi, gli antichi dominatori dell'Europa del Nord, erano in realtà molto aperti verso la parità dei sessi, come se non di più dei loro moderni discendenti. Avevano come capo una donna guerriera.
Lo dimostra l'analisi del Dna fatta sui resti trovati in Svezia, a Birka, in una tomba del X secolo. Jan Stora ha guidato le analisi di un'equipe di genetisti dell'Università di Stoccolma e i risultati sono stati pubblicati sull'American Journal of Psysical Antropology.
Era da 130 anni che gli archeologi si chiedevano se le ossa e gli oggetti trovati accanto al corpo di Bj 581 (il nome attribuito all'individuo nella tomba), fossero appartenuti a un uomo o una donna. Lì vennero rinvenute: una spada, un'ascia, una lancia, delle frecce, un coltello e soprattutto, una tavola e le relative pedine, utilizzata per pianificare tattiche e strategie. A destare stupore nei ricercatori è stato proprio questo corredo, tipico di un individuo di alto rango. In nessuna tomba di donne soldato vichinghe erano infatti mai stati trovati oggetti simili.
Lo scheletro, analizzato più volte negli anni, ha sempre suggerito che a Birka fosse sepolta una donna e la conferma definitiva è arrivata ora dall'analisi del Dna. Sebbene per i ricercatori sia ancora presto per dire se donne guerriero con ruoli di comando fossero un'eccezione o una condizione diffusa.
All'inizio del Medioevo i ricercatori di feroci donne-guerriere vichinghe che combattevano al fianco degli uomini hanno alimentato il mito delle Valchirie, ma questo non può far fare generalizzazioni. Tra l'VIII e il IX secolo il villaggio di Birka, dove sono stati trovati i resti, era un importante snodo commerciale, con una popolazione di un migliaio di abitanti, soprattutto commercianti, artigiani e guerrieri. La loro cultura, però, era diversa da quella della regione e forse questo ritrovamento sembra confermarlo.
Attualmente in un'epoca che si autodefinisce moderna, ma in cui in realtà la parità dei sessi è ancora ben lontana e si assiste ad un femminicidio al giorno, questa scoperta fa davvero sorridere e soprattutto riflettere su quanto popolazioni ormai scomparse fossero molto più civilizzate di quelle attuali.